«Ho già ripagato la tua assistenza iniziale perché, in questo momento, sto conducendo l'essere lontano da te».

«Continua a seguirti?»

«Si! Sembra che mi stia studiando. Hai qualche suggerimento?»

La stanchezza si dileguò e Jamieson proiettò, deciso, «Solo a condizione che tu sia disposto a riconoscere che formiamo un'unità e che tutto il resto, incluso ciò che gli uomini e gli ezwal dovranno decidere circa il Pianeta di Carson, venga discusso più tardi. D'accordo?»

Il pensiero dell'ezwal era poco più di un ringhio: «E continui a insistere!»

Per un momento, lo scienziato sentì tutta l'esasperazione, tutta la tensione delle ore passate come una forza dolorosa che gli opprimeva il cervello. Come una fiamma esplose un pensiero furibondo:

«Maledetto briccone, finora hai forzato tutte le situazioni, e tutte avevano radici in quel problema. Prometti... o dimentica tutto quanto».

Il silenzio era carico d'emozione, oscurato da pensieri informi e amari. Intorno a Jamieson le nebbie si diradavano, svanendo nel crepuscolo della fitta giungla. Finalmente...

«Prometto di aiutarti ad attraversare sano e salvo lo Stretto dei Demoni e ti raggiungerò tra pochi minuti... se non riuscirò a seminare prima il verme».

Jamieson ribatté cupamente: «L'accordo è soddisfacente... ma non sperare di seminare un Rull. Possiedono un perfetto apparato antigravità, mentre la nostra zattera era semplicemente un super-paracadute. Avrebbe finito per precipitare per il proprio peso».

Dopo una pausa carica di tensione, aggiunse: «Hai capito tutto chiaramente? Io brucerò il Rull che ti segue, e poi ce la batteremo a tutta la velocità consentita dalle tue gambe».

«Preparati!». La risposta fu un'ondata gelida, mortale. «Sarò lì tra pochi secondi».

Non vi fu tempo di pensare. I cespugli si schiantarono. Tra la nebbia, Jamieson intravvide fulmineamente l'ezwal e le sue sei zampe. A quindici metri di distanza, i tre occhi allineati, grigi come l'ardesia, erano chiazze di luce. E poi, mentre Jamieson puntava la pistola, nell'attesa disperata...

«Per la tua vita!» gli giunse il pensiero dell'ezwal. «Non sparare, non ti muovere. Sono una dozzina, sopra di me, e...»

Stranamente, quel forte flusso di pensiero terminò in un disordine caotico mentre là fuori divampava l'energia, un abbagliante fuoco bianco che balenò e subito si spense.

La nebbia ondeggiò più densa, biancogrigiastra, fetida, nascondendo ciò che doveva avvenire.

E nascondeva lui.

Jamieson stava disteso, rigido e freddo... e attendeva. Per un momento — la lettura della mente era divenuta così normale, in quelle ore — dimenticò che poteva captare i pensieri soltanto se l'ezwal lo voleva, e si sforzò di penetrare l'occultamento delle vibrazioni mentali.

E finalmente pensò, un pensiero convulso, personale: i Rull dovevano aver prodotto una psicosi nell'ezwal. Null'altro poteva spiegare quella fine incoerente del pensiero in una mente così poderosa. Eppure... la psicosi protettiva veniva usata soprattutto sugli animali e su altri esseri primitivi e incivili, non abituati a quel gioco improvviso di luci abbacinanti.

Aggrottò la fronte, cupamente. In effetti, nonostante il suo cervello potentissimo, l'ezwal aveva molto dell'animale, era molto incivile, e forse era estremamente allergico all'ipnosi meccanica.

Sicuramente non era la morte causata da un pesante proiettore mobile, perché vi sarebbe stato il suono emesso dall'arma, e perché non vi sarebbe stata, invece, quella distorsione istantanea del pensiero, quel vortice...

Provò un istante d'intenso sollievo. Gli aveva dato una strana sensazione di turbamento, pensare che quel possente animale fosse stato ucciso.

Concentrò la mente su un altro pensiero: Dunque l'ezwal era prigioniero, non morto. Quindi... e adesso?

Il sollievo svanì. Non poteva far molto, pensò stordito, contro un incrociatore pesantemente corazzato e armatissimo.

Trascorsero dieci minuti; e poi, dal crepuscolo senza più buio, giunse il rombo tonante di una batteria di proiettori d'energia. Rispose un altro tuono, su scala più ridotta; e poi, di nuovo, più lontano, il ruggito inconfondibile della bordata dai proiettori da cento pollici di una corazzata.

Una corazzata! Una nave venuta dalla base di Eristan I, in normale servizio di pattugliamento o forse per indagare sulle scariche nemiche. I Rull sarebbero stati ben fortunati se fossero riusciti ad andarsene vivi. In quanto a lui... nulla!

Nulla, tranne la notte e i suoi terrori. Certo, ormai i Rull non gli avrebbero più creato fastidi, ma questo era tutto. Non era la salvezza e neppure la speranza della salvezza. Per giorni e giorni, le due grandi navi avrebbero manovrato nello spazio: e prima che la corazzata facesse di nuovo rapporto alla sua base, nessuno avrebbe dato molto peso alla ragione per la quale l'incrociatore dei Tull si trovava al suolo o a bassissima quota.

Inoltre, i Rull avrebbero avvistato i loro nemici prima di venire esatta mente localizzati. Quella prima bordata era stata sparata almeno da cinquanta miglia di distanza.

Il problema dell'ezwal e dell'uomo, che era parso così intimo e risolvibile quando lui e il grande animale erano soli, stava perdendo ogni prospettiva. Sullo sfondo incommensurabilmente più vasto dello spazio, il disegno si di storceva pazzamente.

Diveniva qualcosa d'informe, completamente perduto nell'intrico di ostacoli invisibili che lo facevano continuamente incespicare mentre avanzava nell'oscurità sempre più fitta della giungla.

Dopo mezz'ora la tenebra era totale, e Jamieson non aveva percorso più di poche centinaia di metri. Avrebbe continuato a procedere alla cieca nella notte nera, se all'improvviso le sue dita non avessero incontrato una corteccia ruvida.

Un albero!

Belve enormi passarono rumorosamente sotto di lui che stava aggrappato a quell'appiglio precario. Occhi di fuoco lo guardavano minacciosi. Sette volte, durante la prima ora, secondo il suo orologio, esseri mostruosi si arrampicarono sull'albero, gnaulando e sbavando di bramosia ferina. Sette volte la pistola eruttò un raggio sempre più esile d'energia distruttiva, e i grandi carnivori corazzati che facevano tremare il suolo al loro avvicinarsi vennero a nutrirsi della carne odorosa... e poi passarono oltre.

Era trascorsa un'ora!

Cento notti come quella, senza dormire, difendendosi contro un nemico nuovo e feroce ogni dieci minuti, e senza energia nella pistola.

La cosa più terribile era che l'ezwal aveva appena accettato di collaborare con lui contro i Rull. La vittoria gli era stata strappata proprio quando era a portata di mano...

Qualcosa, qualcosa di orribile, sbavò ai piedi dell'albero. I grandi artigli rasparono sulla corteccia, e poi due occhi, distanti una trentina di centimetri l'uno dall'altro, salirono verso di lui a velocità sorprendente.

Jamieson afferrò la pistola, esitò, poi si affrettò ad arrampicarsi più in alto, tra i rami più sottili. Ad ogni istante, via via che si inerpicava, aveva la sensazione agghiacciante che un ramo stesse per spezzarsi, facendolo scivolare verso la cosa; e aveva l'impressione, ancora più spaventosa, che le fauci enormi stessero per raggiungerlo.

Tuttavia, la decisione di risparmiare la carica della pistola diede risultati migliori di quanto si aspettasse. La belva stava salendo lentamente tra quei rami più esili per inseguirlo quando dal basso risuonò un ringhio tremendo, e un altro grosso mostro comincò ad arrampicarsi sull'albero.

Incominciò allora una lotta, animale contro animale, senza interruzioni. L'albero tremava mentre belve gnaulanti dai denti a sciabola si battevano contro enormi forme ruggenti. E di tanto in tanto si levava un acuto strido trionfante, quando un gigantesco dinosauro si avventava furiosamente nella mischia... e divorava, alla lettera, la massa di mostri in lotta.

Verso l'alba, i ringhi e i muggiti continui, vicino e lontano, diminuirono considerevolmente, come se una dopo l'altra le belve si saziassero e si ritirassero soddisfatte nelle loro tane fetide.

All'alba Jamieson era ancora vivo, completamente esausto, ciondolante per il bisogno di dormire: nella sua mente c'era soltanto la volontà di vivere, ma assolutamente non vi era la convinzione di poter sopravvivere ancora per quella giornata.

Se almeno, a bordo di quella nave, non fosse stato bloccato tanto rapidamente dall'ezwal nella sala comando, avrebbe potuto prendere le pillole antisonno, le capsule per ricaricare la pistola e — rise, sarcasticamente, rendendosi conto dell'inutilità di quel ragionamento — una scialuppa di salvataggio che, ovviamente, gli avrebbe permesso di mettersi in salvo.

Jamieson ne succhiò una al sapore di cioccolato e scese lentamente al suolo intriso di sangue.

Quella giornata aveva una monotonia che sfiniva la mente! La giungla e il mare, diversi soltanto nelle linee della terraferma, nel modo in cui l'acqua lambiva una spiaggia incurvata e tortuosa. La sostanza restava sempre immutata.

Giungla e mare.

Ogni cosa lottava contro di lui... e fino a metà pomeriggio, Jamieson rispose lottando. Calcolò di aver percorso circa tre miglia quando scorse un albero... c'era una specie di biforcazione, in alto, dove lui avrebbe potuto dormire senza precipitare, se si fosse legato con le liane.

Tre miglia al giorno. Milleduecento miglia, contando il tratto di giungla ancora da percorrere, contando lo Stretto dei Demoni... milleduecento miglia, a tre miglia al giorno.

Quattrocento giorni!

Si svegliò mentre le belve della notte di Eristan II latravano la loro sete di sangue alla base dell'albero. Si svegliò con il ricordo di un incubo nel quale aveva nuotato nelle acque dei Demoni, inseguito da milioni di vermi che urlavano qualcosa a proposito della necessità di risolvere il problema degli ezwal.

«Che cosa farà l'uomo», gli chiedevano in tono d'accusa, «con una civiltà intellettualmente tanto avanzata, ma senza edifici, senza armi,... senza nulla?»

Jamieson si destò, scrollandosi, e poi «All'inferno gli ezwal!» urlò nella notte nera, opprimente, mortale.

E per un poco rimase lì, stordito dai traumi che gli sconvolgevano la mente, un tempo così equilibrata.

Equilibrata! Ma naturalmente, lo era stata molto tempo prima.

Spuntò il quarto giorno, una copia nebbiosa di quello precedente. E di quello ancora precedente. E di...

«Finiscila, idiota!» disse il professor Jamieson a voce alta, rabbiosa.

Stava avanzando ostinatamente verso quella che sembrava una radura, quando una massa grigia di piante striscianti, su un lato, si mosse come sfiorata da un vento leggero, e cominciò a protendersi verso di lui. E nel contempo uno strano pensiero esitante si insinuò nella sua mente... dall'esterno.

«Uccidili tutti!» disse con una ferocia calma e demenziale. «Uccidi anche quella... quella cosa bipede. Manda i tralci attraverso il suolo».

Era una forma-pensiero così aliena, così diversa e sconvolgente, che il cervello di Jamieson riemerse dalle profondità in cui si era inabissato, e si tese, improvvisamente vigile e affascinato, quasi ritornato alla normalità.

«Ma certo», pensò, razionalmente, «ci siamo sempre chiesti come la pianta assassina Rytt potesse aver evoluto la sua intelligenza elevata. È come gli ezwal. Comunica per telepatia».

Jamieson fu preso da un intenso interesse scientifico per tutte le conoscenze fondamentali che aveva accumulato... sugli ezwal, sui Rull, sul modo in cui aveva captato le vibrazioni della pianta Rytt. Senza alcun dubbio l'ezwal, trasmettendogli a forza i propri pensieri, aveva aperto nuovi canali, e gli aveva reso più facile ricevere ogni emanazione mentale. E questo poteva significare che lui...

Smise di pensare, in una vampata di tesa attenzione: il suo sguardo puntò sui tralci grigi che avanzavano verso di lui. Indietreggiò, spianando la pistola: sarebbe stato tipico della pianta Rytt tentare una finta con un avvicinamento aperto, lento, in apparenza facile da evitare, e poi colpire fulmineamente dal sottosuolo con le radici acuminate come aghi.

Jamieson non intendeva tornare indietro o eludere la situazione critica che quell'essere poteva imporre. Tornare indietro dove... A che cosa?

Aggirò i tralci visibili, si addentrò in un tratto aggrovigliato di gigantesche felci verdi: e poiché ora aveva ritrovato il completo autocontrollo, fu la sua mentalità di militare, la mente che accettava la realtà qual'era, ad assimilare la scena che gli stava davanti.

Poco lontano era ferma una scialuppa dei Rull, lunga una sessantina di metri. Nei pressi, dieci o dodici Rull bianchicci giacevano rigidi e morti, avvinghiati dai tentacoli grigi della pianta. I tralci penetravano nel portello aperto della scialuppa: e non c'era dubbio che la pianta li avesse «uccisi tutti»!

L'atmosfera di assenza di vita che aleggiava sopra il veicolo, con la sua promessa di salvezza, portò con sé una gioia travolgente, ancora più dolce dopo la disperazione di quei giorni infernali... una gioia che ebbe fine quando il pensiero freddo dell'ezwal gli colpì il cervello.

«Ti stavo aspettando, professore. Non sono in grado di far funzionare i comandi di questa scialuppa: quindi sono qui e ti aspetto...»

Dalla disperazione assoluta alla gioia assoluta e di nuovo all'assoluta disperazione in pochi minuti.

Freddo, quasi desolato, Jamieson cercò il suo grande, implacabile nemico. Ma nulla si muoveva nel mondo della giungla, non si scorgeva il grande corpo azzurro e lucente: c'erano soltanto i vermi bianchi, morti, e la scialuppa avvolta dai tralci, a dimostrare che lì vi era stato movimento.

Solo vagamente si rese conto che i pensieri dell'ezwal continuavano:

«Questa pianta assassina era qui, quattro giorni fa, quando sono sceso dalla zattera antigravità. Si era spostata più avanti, sull'isola, quando i Rull mi hanno portato alla scialuppa. Mi ero già liberato degli effetti ipnotici degli specchi che avevano usato per catturarmi; perciò ho sentito la corazzata e l'incrociatore dei Rull che attaccavano battaglia. Questi esseri sembravano ignari di quanto accadeva — perché non udivano i suoni, immagino — e perciò si sono sdraiati fuori, sul suolo fradicio.

«È stato allora che sono entrato in comunicazione mentale con la pianta e l'ho richiamata qui... così abbiamo dato un esempio del tipo di collaborazione che tu hai predicato così a lungo con tanta appassionata sincerità, ma...»

La cosa più strana era che, nonostante tutti i pericoli superati da Jamieson, la speranza era definitivamente morta. Ogni parola che l'ezwal proiettava con tanta freddezza dimostrava che. ancora una volta, quell'essere immensamente efficiente aveva dato prova della sua capacità di badare a se stesso.

Collaborazione con una pianta assassina Rytt... l'unica cosa, in quel mondo primitivo, sulla quale lui aveva contato veramente come una possibile minaccia continua per l'ezwal.

Non era più così: e se quei due collaboravano contro di lui... Jamieson tenne la pistola spianata, ma il pensiero cupo continuò.

Era evidente che l'uomo non avrebbe mai potuto sconfiggere gli ezwal. Uno psicoattrito di zero virgola 135 significava che vi sarebbe stata una rivoluzione sul Pianeta di Carson, seguita da una lunga lotta, feroce e sanguinosa, e... Si accorse che l'ezwal gli stava trasmettendo altri pensieri:

«... il tuo ragionamento ha un unico difetto. Ho avuto quattro giorni di tempo per considerare la minaccia rappresentata dai Rull, e per ricordare che di tanto in tanto ho dovuto collaborare con te. Ho dovuto!

«E non dimenticare che, nell'intelligenza della Rytt, ho trovato un esempio perfetto di tutte le caratteristiche peggiori degli ezwal. Anch'essa possiede la facoltà telepatica. Anch'essa dovrà realizzare una civiltà meccanica prima di poter sperare d'impadronirsi del pianeta. Si trova in una fase più arretrata di sviluppo, quindi è ancora più ostinata, ancora più stupida...»

Jamieson aggrottò la fronte con sincero sbalordimento, senza osare di lasciar rinascere la speranza. Ribatté, con violenza: «Non cercare d'ingannarmi. Hai vinto su tutta la linea. E adesso, di tua spontanea volontà, ti stai offrendo, in pratica, di aiutarmi a ritornare al Pianeta di Carson in tempo per prevenire una rivoluzione favorevole agli ezwal. Non ti credo!»

«Non lo faccio di mia spontanea volontà, professore», gli giunse il pensiero laconico. «Tutto ciò che ho fatto da quando siamo giunti su questo pianeta mi è stato imposto. Avevi ragione di ritenere che sarei stato costretto a ritornare per chiederti aiuto. Quando sono sceso dalla zattera, questa pianta si era propagata attraverso l'intera penisola, qui, e non voleva lasciarmi passare, rifiutava ostinatamente di sentire ragioni.

«Non mi è affatto grata per il banchetto a base di vermi che ho contribuito a procurarle; e in questo momento mi ha bloccato in una cabina di questa scialuppa.

«Professore, prendi la pistola, e insegna a questa maledetta creatura l'importanza della... collaborazione!»

 

La Fondazione

Foundation

di Isaac Asimov

Astounding, Maggio

 

 (Immagino che, tra tutte le mie opere letterarie, la trilogia della Fondazione sia quella che ha avuto il maggiore successo. Nel 1966 è stata premiata con un Hugo come «la miglior serie di romanzi di tutti i tempi», e da trent'anni viene venduta nelle edizioni rilegate e tascabili, senza interruzioni.

Tuttavia, prima che uscissero i volumi (1951-1953), era una serie di nove racconti collegati, apparsi su Astounding dal 1942 al 1950. il primo era questo, «La Fondazione».

Naturalmente, quando scrissi il racconto non avevo idea di quel che gli avrebbe riservato il futuro. Incominciò tutto il 1° agosto 1941, quando presentai a John Campbell l'idea di una vicenda imperniata sulla caduta dell'Impero Galattico e scritta come un romanzo storico.

A Campbell l'idea piacque tanto che non volle saperne di lasciarmi scrivere un racconto solo sull'argomento. Mi chiese di creare una serie «aperta», come la serie della Storia del Futuro di Heinlein.

Abbagliato da Campbell (Campbell riusciva sempre ad abbagliarmi), acconsentii e in agosto cominciai a scrivere il racconto. Impiegai tre settimane (scrivevo soltanto nel tempo libero, perché a quel tempo mi stavo preparando con impegno per conseguire il dottorato alla Columbia University) e poiché temevo che Campbell cambiasse idea e non mi lasciasse scrivere altri episodi della serie, di proposito non rivelai la conclusione e la lasciai in sospeso. Così potei avere la certezza che Campbell avrebbe rifiutato il racconto o avrebbe chiesto il seguito.

Chiese il seguito. I.A.)

 

Hari Seldon era vecchio e stanco. La sua voce, per quanto risuonasse ruggente attraverso il sistema degli amplificatori, era anch'essa vecchia e stanca.

Erano ben pochi, in quella piccola assemblea, a non rendersi conto che Hari Seldon sarebbe morto prima della primavera successiva. E ascoltavano in rispettoso silenzio le ultime dichiarazioni ufficiali del più grande genio della Galassia.

«Questa è la riunione finale», disse la voce stanca, «di un gruppo che io ho riunito oltre vent'anni or sono». Seldon girò gli occhi sugli scienziati seduti davanti a lui. Era solo, sul podio, solo sulla sedia a rotelle su cui l'aveva inchiodato un colpo due anni prima, e sulle sue ginocchia c'era l'ultimo volume — il cinquantaduesimo — dei verbali delle precedenti riunioni. Era aperto all'ultima pagina.

Seldon continuò: «Il gruppo da me riunito rappresentava quanto di meglio l'Impero Galattico poteva offrire in fatto di filosofi, storici, psicologi e specialisti di scienze fisiche. E nei vent'anni trascorsi da quel giorno, abbiamo esaminato il problema più grande che mai sia stato affrontato da un gruppo di cinquanta uomini... forse il più grande che sia mai stato affrontato da qualunque gruppo di umani.

«Non sempre ci siamo trovati d'accordo sui metodi o sulla procedura. Abbiamo dedicato mesi e addirittura anni a dibattiti inutili su questioni relativamente trascurabili. Più di una volta, il nostro gruppo ha corso il rischio di scindersi.

«Eppure...». Il viso del vecchio s'illuminò di un mite sorriso. «Eppure abbiamo risolto il problema. Molti dei primi membri sono morti e sono stati sostituiti da altri. Molti progetti sono stati abbandonati; molti piani sono stati respinti per votazione; molte procedure si sono rivelate errate.

«Eppure abbiamo risolto il problema: e neppure un membro ha abbandonato da vivo il gruppo. Me ne compiaccio».

Seldon fede una pausa e attese che l'applauso discreto si spegnesse.

«Abbiamo fatto ciò che dovevamo; e la nostra opera è terminata. L'Impero Galattico sta crollando, ma la sua cultura non morirà, e sono state prese le misure necessarie perché se ne sviluppi una cultura nuova e più grande. I due Rifugi Scientifici che abbiamo progettato sono stati creati: uno ad ogni estremità della Galassia, a Terminus e a Fine delle Stelle. Sono in funzione e già procedono lungo le direttrici inevitabili da noi tracciate.

«A noi resta soltanto un'ultima cosa, tra cinquant'anni. Questo fattore, già elaborato nei dettagli, sarà l'istigazione di rivolte nei settori chiavi di Anacreon e di Loris. Metterà in moto il meccanismo finale, perché si compia nel millennio che seguirà».

Hari Seldon abbassò la testa stanca. «Signori, dichiaro aggiornata l'ultima riunione di questo gruppo. Abbiamo incominciato in segreto; abbiamo sempre lavorato in segreto; ed ora finiamo in segreto... per attendere la nostra ricompensa tra mille anni, con la creazione del Secondo Impero Galattico».

L'ultimo volume dei verbali si chiuse, e la mano di Hari Seldon ricadde, abbandonata.

«Ho finito», mormorò il vecchio scienziato.

 

Lewis Pirenne era al lavoro, alla sua scrivania, in un angolo ben illuminato della stanza. Era necessario coordinare il lavoro e organizzare l'attività. I fili dovevano venire intessuti in un motivo preciso.

Cinquant'anni; cinquant'anni per consolidarsi e fare della Fondazione Numero Uno dell'Enciclopedia un'unità perfettamente funzionante. Cinquant'anni per raccogliere il materiale. Cinquant'anni per preparare.

Era stato fatto. Tra cinque anni vi sarebbe stata la pubblicazione del primo volume dell'opera più monumentale che la Galassia avesse mai concepito. E poi, a intervalli di dieci anni, regolarmente, con la precisione di un orologio... un volume dopo l'altro. E insieme ai volumi sarebbero usciti i supplementi: articoli speciali sugli eventi di interesse attuale, fino a quando...

Pirenne si scosse, irrequieto, quando il cicalino sulla sua scrivania ronzò stizzosamente. Aveva quasi dimenticato l'appuntamento. Premette il pulsante che apriva la porta e distrattamente, con la coda dell'occhio, vide l'uscio spalancarsi ed entrare la figura corpulenta di Salvor Hardin. Pirenne non alzò la testa.

Hardin sorrise tra sé. Aveva fretta, ma sapeva che non era il caso di offendersi per il trattamento sprezzante riservato da Pirenne a chiunque lo disturbasse sul lavoro. Sprofondò nella poltrona di fronte alla scrivania e attese.

Lo stilo di Pirenne emetteva un fruscio lievissimo, scorrendo sulla carta. Non c'era altro movimento, altro suono. Poi Hardin estrasse dal taschino del panciotto una moneta da due crediti. La lanciò, e la superficie d'acciaio inossidabile rifletté bagliori luminosi, roteando nell'aria. Hardin l'afferrò al volo e la lanciò di nuovo, osservando pigramente i riflessi lampeggianti. L'acciaio inossidabile era un buon mezzo di scambio, su un pianeta dove era necessario importare tutti i metalli.

Pirenne alzò la testa e sbatté le palpebre. «La smetta!» disse in tono querulo.

«Eh?»

«La smetta di lanciare quell'infernale moneta. La smetta!»

«Oh». Hardin intascò il dischetto metallico. «Allora mi dica lei quando è pronto, d'accordo? Ho promesso di ritornare alla riunione del Consiglio Municipale prima che venga messo ai voti il nuovo progetto per l'acquedotto».

Pirenne sospirò e si scostò dalla scrivania. «Sono pronto. Ma mi auguro che non intenda disturbarmi parlandomi degli affari cittadini. Quelli li sbrighi lei, la prego. L'Enciclopedia mi porta via tutto il tempo».

«Ha saputo la notizia?» chiese flemmatico Hardin.

«Che notizia?»

«La notizia che l'apparecchio a ultraonde di Città Terminus ha ricevuto due ore fa. Il governatore reale della Prefettura di Anacreon ha assunto il titolo di re».

«Ebbene? E con questo?»

«Ciò significa», rispose Hardin, «che noi siamo isolati dalle regioni interne dell'Impero. Si rende conto che Anacreon è situato esattamente su quella che era la nostra ultima rotta commerciale per Sant'anni e Trantor e la stessa Vega? Da dove arriva il nostro metallo? Da sei mesi non siamo riusciti a far passare una sola spedizione d'acciaio o di alluminio, e adesso non potremo più riceverne, se non per graziosa concessione del re di Anacreon».

Pirenne schioccò la lingua, spazientito. «E allora procuratevele per suo tramite».

«Ma possiamo farlo? Mi ascolti, Pirenne, secondo lo statuto di questa Fondazione, la Commissione Fiduciaria del Comitato dell'Enciclopedia ha pieni diritti amministrativi. Io, nella mia qualità di sindaco di Città Terminus, ho appena il potere sufficiente per soffiarmi il naso e magari per sternutire, se lei controfirma un ordine che mi autorizza a farlo. Quindi spetta a lei e alla sua Commissione. Le chiedo, in nome della Città, la cui prosperità dipende dal commercio ininterrotto con la Galassia, di indire una riunione d'emergenza...»

«Basta! Non è il caso di tenere un discorso. Senta, Hardin, la Commissione Fiduciaria non ha vietato la creazione di un governo municipale su Terminus. Ci rendiamo conto che è necessario a causa dell'incremento della popolazione da quando fu creata la Fondazione cinquant'anni fa, e del numero crescente di persone che si occupano di affari non riguardanti l'Enciclopedia. Ma ciò non significa che il primo e unico scopo della Fondazione non sia più pubblicare l'Enciclopedia definitiva di tutto lo scibile umano. La nostra è una istituzione scientifica, finanziata dallo Stato, Hardi. Non possiamo, non dobbiamo e non vogliamo intrometterci nella politica locale».

 

«Politica locale! Per l'alluce sinistro dell'Imperatore, Pirenne, qui si tratta di vita o di morte. Il pianeta Terminus non può mantenere, da solo, una civiltà meccanizzata. Mancano i metalli. Lo sa benissimo. Nelle rocce superficiali non c'è traccia di ferro, rame o alluminio, e c'è pochissimo del resto. Cosa crede che accadrà all'Enciclopedia se questo sedicente re di Anacreon ci stringe in una morsa?».

«Noi? Lei dimentica che siamo sotto il controllo diretto dell'imperatore in persona. Non facciamo parte della prefettura di Anacreon o di nessun'altra. Lo ricordi! Noi facciamo parte del dominio personale dell'imperatore, e nessuno ci tocca. L'Impero è in grado di proteggere ciò che gli appartiene».

«E allora perché non ha impedito che il reale governatore di Anacreon si ribellasse? E si tratta soltanto di Anacreon. Almeno venti della prefetture più esterne della Galassia, in pratica l'intera Periferia, hanno incominciato a far le cose a modo loro. Le assicuro, ho molti dubbi circa l'Impero e la sua capacità di proteggerci».

«Sciocchezze! Reali governatori, re... che differenza fa? L'Impero è sempre stato travagliato dalla politica e da uomini che premono di qua e di là. Già prima d'ora ci sono stati governatori che si sono ribellati e. se è per questo, anche imperatori che sono stati deposti o assassinati. Ma questo che c'entra con l'Impero in se stesso? Lasci perdere, Hardin. Non è affar nostro. Noi siamo, per prima e ultima cosa... scienziati. E il nostro unico interesse è l'Enciclopedia. Oh, si, quasi lo dimenticavo. Hardin!»

«Beh?»

«Intervenga presso quel suo giornale!». Il tono di Pirenne era irritato.

«Il Giornale di Città Terminus? Non è mio. È proprietà privata. Che cosa le ha fatto?»

«Ormai da settimane chiede che il cinquantesimo anniversario della Fondazione venga celebrato con feste pubbliche e solennità del tutto inopportune».

«E perché no? L'orologio al radio aprirà la Prima Cripta fra tre mesi. Direi che è una grande occasione. No?».

«Non è il caso di organizzare sciocchi festeggiamenti, Hardin. La Prima Cripta e la sua apertura riguardano soltanto la Commissione Fiduciaria. Tutto ciò che ci sarà d'importante verrà comunicato alla popolazione. È una decisione definitiva, e la prego di spiegarlo chiaramente al Giornale».

«Mi dispiace, Pirenne, ma lo Statuto della Città garantisce una certa cosetta chiamata libertà di stampa».

«Può darsi. Ma la Commissione Fiduciaria non la garantisce. Io sono il rappresentante dell'imperatore su Terminus, Hardi, e a questo riguardo ho pieni poteri».

Hardin assunse l'aria di chi sta contando mentalmente fino a dieci. Disse, cupamente: «Per quel che riguarda la sua posizione di rappresen tante dell'imperatore, allora, ho un'ultima notizia da comunicarle».

«A proposito di Anacreon?». Pirenne strinse le labbra, infastidito.

«Sì. Anacreon ci manderà uno speciale ambasciatore. Fra due settimane».

«Un ambasciatore speciale? Qui? Da Anacreon?». Pirenne rimuginò. «Perché?».

Hardin si alzò, e spinse la poltrona contro la scrivania. «Provi a indovinare».

E se ne andò... poco cerimoniosamente.

 

Anselm Haut Rodric — «Haut» stava a indicare il sangue nobile — sottoprefetto di Pleuma e ambasciatore straordinario di Sua Altezza di Anacreon, più una dozzina di altri titoli, fu accolto da Salvor Hardin allo spazioporto con tutto l'imponente rituale di una visita di Stato.

Con un sorriso contratto e un profondo inchino, il sottoprefetto aveva estratto il disintegratore dalla fondina e l'aveva presentato a Hardin, tenendolo per la canna. Hardin ricambiò l'omaggio con un disintegratore preso a prestito per l'occasione. In questo modo vennero proclamate l'amicizia e la benevolenza reciproca e, anche se Hardin notò una piccola protuberanza sulla spalla di Haut Rodric, per prudenza non disse nulla.

La macchina su cui salirono — preceduta, fiancheggiata e seguita da un adeguato nugolo di funzionari minori — procedette con solenne lentezza fino alla Piazza dell'Enciclopedia, acclamata lungo il percorso dalla folla debitamente entusiasta.

Il sottoprefetto Anselm accolse le acclamazioni con la benigna indifferenza che si conveniva a un militare e a un nobile.

Chiese a Hardin: «E questa città è tutto il vostro mondo?»

Hardin alzò la voce per farsi sentire nel clamore. «Il nostro è un mondo giovane, eminenza. Nella nostra breve storia, solo pochi esponenti dell'alta nobiltà hanno reso visita al nostro povero pianeta. Perciò siamo entusiasti».

È evidente che «l'alta nobiltà» non era in grado di riconoscere l'ironia di quella risposta.

Anselm disse, pensosamente: «Fondata cinquant'anni fa. Uhm-m-m! Avete vastissimi territori non sfruttati, sindaco. Avete mai pensato di dividerli in tenute e proprietà?»

«Per ora non è necessario. Siamo estremamente centralizzati. Deve essere così, a causa dell'Enciclopedia. Un giorno, forse, quando la popolazione sarà cresciuta ..»

«Che strano mondo! Non ci sono contadini?»

Hardin pensò che non occorreva molto acume per capire che sua eminenza stava cercando piuttosto goffamente di raccogliere informazioni. Rispose, disinvolto: «No... e neppure nobili».

Haut Rodric inarcò le sopracciglia. «E il vostro capo... l'uomo che devo incontrare?»

«Vuol dire il dottor Pirenne? Sì! È il presidente della Commissione Fiduciaria... e rappresentante personale dell'imperatore».

«Dottore? Non ha altri titoli? Un accademico? E conta più dell'autorità civile?»

«Oh, certo», rispose amabilmente Hardin. «Siamo tutti accademici, più o meno. In fondo, questo non è tanto un mondo quanto una fondazione scientifica... sotto il controllo diretto dell'imperatore».

La leggera enfasi su quell'ultima frase parve sconcertare il sottoprefetto, che rimase pensierosamente in silenzio durante il resto del lento tragitto fino alla Piazza dell'Enciclopedia.

 

Se Hardin si annoiò, quel pomeriggio e quella sera, ebbe almeno la soddisfazione di constatare che Pirenne e Haut Rodric — i quali si erano incontrati con reciproche dichiarazioni di stima e di rispetto — si detestavano cordialmente.

Haut Rodric aveva seguito, con gli occhi un po' vitrei, la conferenza che Pirenne gli aveva tenuto durante il «giro d'ispezione» nel Palazzo dell'Enciclopedia. Con un sorriso educato e vacuo, aveva ascoltato le sue rapide spiegazioni mentre passavano attraverso gli immensi magazzini dei filmati da consultazione e le numerose sale da proiezione.

Solo dopo che ebbe visitato, piano per piano, i reparti composizione, i reparti revisione, i reparti pubblicazione e i reparti filmatura, espresse per la prima volta un parere di carattere generale.

«È molto interessante», disse, «ma mi sembra un'occupazione strana, per uomini adulti. A cosa serve?».

Era un'osservazione, notò Hardin, per la quale Pirenne non trovò una risposta, sebbene la sua espressione fosse molto eloquente.

Il pranzo, la sera, rispecchiò gli eventi del pomeriggio, perché Haut Rodric monopolizzò la conversazione descrivendo — nei più minuziosi particolari tecnici e con incredibile ardore — le proprie imprese come comandante di battaglione durante la recente guerra tra Anacreon e il vicino regno di Smyrno, da poco autoproclamatosi tale.

I dettagli del racconto del sottoprefetto non si completarono fino a quando il pranzo ebbe termine e, uno ad uno, i funzionari minori se ne andarono. L'ultima trionfante descrizione delle astronavi sfasciate arrivò quando Haut Rodric accompagnò Pirenne e Hardin sul balcone, nell'aria calda della sera estiva.

«E adesso», annunciò, con pesante giovialità, «parliamo di cose serie».

«Ma certo», mormorò Hardin. accendendo un lungo sigaro di tabacco vegano — non ne erano rimasti molti, pensò — e inclinando all'indietro la sedia.

La Galassia era alta nel cielo e la nebulosa forma lenticolare si stendeva pigramente da un orizzonte all'altro. Le poche stelle, lì al limitare dell'universo, erano in confronto minuscole scintille insignificanti.

«Naturalmente», disse il sottoprefetto, «tutte le discussioni ufficiali, cioè la firma dei documenti e le altre formalità, avranno luogo di fronte al... come chiamate il vostro consiglio?».

«La Commissione Fiduciaria», rispose freddamente Pirenne.

«Che nome bizzarro! Comunque, provvederemo domani. Tanto vale che sgombriamo il terreno adesso, tra di noi. Eh?».

«E ciò significa...» fece Hardin.

«Soltanto questo. La situazione è cambiata, qui nella Periferia, e la posizione del vostro pianeta è diventata piuttosto incerta. Sarebbe molto utile se riuscissimo ad addivenire a un'intesa sull'argomento. A proposito, sindaco, ha un altro di questi sigari?».

Hardin trasalì e ne offrì uno, con riluttanza.

Anselm Haut Rodric lo fiutò e schioccò la lingua. «Tabacco vegano! Dove l'ha preso?».

Pirenne fece una smorfia. Non fumava e, anzi, detestava l'odore. «Mi faccia capire meglio, eminenza. La sua missione ha soltanto lo scopo di chiarire le cose?».

Haut Rodric annuì, tra il fumo, aspirando avidamente le prime boccate.

«In tal caso, è presto conclusa. La situazione, per quel che riguarda la Fondazione Numero Uno dell'Enciclopedia, è quella che è sempre stata».

«Ah? E come è sempre stata?».

«Semplicemente così: una istituzione scientifica finanziata dallo Stato, parte del dominio personale dell'augusta maestà dell'imperatore».

Il sottoprefetto non sembrò impressionato. Sbuffò un paio di anelli di fumo. «È una bella teoria, dottor Pirenne. Immagino che abbiate gli statuti con il sigillo imperiale... ma com'è l'attuale situazione? Quale è la vostra posizione nei confronti di Smyrno? Vi trovate a meno di cinquanta parsec dalla capitale di Smyrno, lo sapete. E Konom e Deribow?».

Pirenne disse: «Noi non abbiamo niente a che fare con le prefetture. Facciamo parte del dominio dell'Imperatore...»

«Non sono prefetture», gli rammentò Haut Rodric. «Adesso sono regni».

«Regni, allora. Non abbiamo niente a che fare con i regni. Come istituzione scientifica...»

«Al diavolo la scienza!» imprecò l'altro, con una bestemmia soldatesca che ionizzò l'atmosfera. «Cosa c'entra con il fatto che rischiamo di vedere Terminus occupato da Smyrno, da un momento all'altro?».

«E l'imperatore? Resterebbe a guardare senza far nulla?».

Haut Rodric si calmò e disse: «Bene, dottor Pirenne, lei rispetta le proprietà dell'imperatore, e anche Anacreon le rispetta, ma non è detto che lo faccia anche Smyrno. Non dimentichi che abbiamo appena firmato un trattato con l'imperatore — domani ne presenterò una copia alla sua Commissione — che ci affida la responsabilità di mantenere l'ordine entro i confini della vecchia prefettura di Anacreon, per conto dell'imperatore. Quindi il nostro dovere è chiaro, no?».

«Certamente. Ma Terminus non fa parte della prefettura di Anacreon».

«E Smyrno...»

«E non fa parte neppure della prefettura di Smyrno. Non fa parte di nessuna prefettura».

«E Smyrno lo sa?».

«Non m'interessa che lo sappia o no».

«A noi interessa. Abbiamo appena finito una guerra contro Smyrno, e detiene ancora due sistemi solari che appartengono a noi. Terminus occupa una posizione strategica estremamente importante fra le due nazioni».

Hardin si sentiva stanchissimo. Interruppe: «Qual è la sua proposta, eminenza?».

Il sottoprefetto sembrava ben disposto ad abbandonare le schermaglie per le affermazioni più dirette. Disse vivacemente: «Mi sembra del tutto ovvio che, siccome Terminus non è in grado di difendersi, Anacreon deve assumersene il compito, nel proprio interesse. Lei capisce che non intendiamo intrometterci nell'amministrazione interna...»

«Uh-uh», borbottò seccamente Hardin.

«... ma riteniamo che sarebbe meglio per tutti gli interessati se Anacreon stabilisse sul pianeta una base militare».

«E non chiedereste altro? Solo una base militare in uno dei vastissimi territori disabitati... e basta?».

«Ecco, naturalmente, ci sarebbe il problema di mantenere le forze difensive».

La sedia di Hardin ricadde sulle quattro gambe, e il sindaco si appoggiò i gomiti sulle ginocchia. «Finalmente arriviamo al sodo. Traduciamolo in un linguaggio chiaro. Terminus deve diventare un protettorato e pagare tributi».

«Non tributi. Tasse. Noi vi proteggiamo. Voi pagate la protezione».

Pirenne batté la mano sulla sedia, con improvvisa violenza. «Lasci parlare me, Hardin. Eminenza, non m'interessano affatto Anacreon, Smyrno, tutta la vostra politica locale e le vostre guerricciattole. Le ripeto che questa è un'istituzione finanziata dallo Stato ed esente dalle tasse».

«Finanziata dallo Stato? Ma lo Stato siamo noi, dottor Pirenne, e noi non la finanziamo».

Pirenne si alzò, furioso. «Eminenza, io sono il rappresentante diretto...»

«... dell'augusta maestà dell'imperatore», concluse in tono acido Anselm Haut Rodric. «E io sono il rappresentante diretto del re di Anacreon. Anacreon è molto più vicino, dottor Pirenne».

«Torniamo a parlare di cose concrete», esortò Hardin. «Come le prelevereste, le tasse, eminenza? In natura? Grano, patate, verdura, bestiame?».

Il sottoprefetto sgranò gli occhi. «Ma cosa diavolo va dicendo? Cosa ce ne faremmo? Ne abbiamo una sovrapproduzione. Oro, naturalmente. Cromo o vanadio, tra l'altro, andrebbero anche meglio, se ne avete in quantità».

Hardin rise. «In quantità! Non abbiamo neppure il ferro, in quantità. Oro! Ecco, dia un'occhiata a questa». E lanciò una moneta all'ambasciatore.

Haut Rodric la fece saltellare nella mano e sgranò di nuovo gli occhi. «Che cos'è? Acciaio?».

«Infatti».

«Non capisco».

«Terminus è un pianeta praticamente privo di metalli. Dobbiamo importarli tutti. Di conseguenza, non abbiamo oro, non abbiamo nulla per pagarvi, a meno che vi accontentiate di qualche migliaio di staia di patate».

«Beh... allora manufatti».

«Senza metallo? E con che cosa costruiremmo i macchinari?».

Dopo una pausa, Pirenne ci riprovò. «L'intera discussione è completamente fuori argomento. Terminus non è un pianeta, è una fondazione scientifica che sta preparando una grande enciclopedia. Per lo spazio, ma lei non ha nessun rispetto per la scienza?».

«Le enciclopedie non servono a vincere le guerre». Haut Rodric inarcò le sopracciglia. «Dunque è un mondo completamente improduttivo... e praticamente non occupato. Bene, potreste pagare con le terre».

«Come sarebbe a dire?» chiese Pirenne.

«Questo pianeta è quasi deserto, e ie terre non occupate sono probabilmente fertili. Vi sono molti nobili di Anacreon che gradirebbero acquisire nuovi possedimenti».

«Non può proporre una simile...»

«Non c'è motivo di allarmarsi tanto, dottor Pirenne. C'è terra in abbondanza per tutti. Se si arriverà a questo, e se voi collaborerete, potremmo sistemare probabilmente le cose in modo che non perdiate nulla. Si potrebbe conferire titoli e concedere tenute. Lei mi capisce, credo».

Pirenne fece una smorfia. «Grazie!».

E poi Hardin chiese, ingenuamente: «Anacreon potrebbe fornirci adeguate quantità di praseodimio per la nostra centrale atomica? Abbiamo scorte solo per pochi anni».

Pirenne si lasciò sfuggire un'esclamazione soffocata; poi vi fu un silenzio che durò vari minuti. Quando Haut Rodric riprese a parlare, lo fece con un tono molto diverso.

«Voi avete l'energia atomica?»

«Certamente. Cosa c'è di strano? Immagino che ormai l'energia atomica sia vecchia di cinquantamila anni. Perché non dovremmo averla? Però è un po' difficile procurarci il praseodimio».

«Si... sì». L'ambasciatore s'interruppe e aggiunse, impacciato: «Bene, signori, proseguiremo la discussione domani. Se volete scusarmi...».

Pirenne lo guardò allontanarsi e digrignò fra i denti: «Che somaro insopportabile!» Che...»

Hardin l'interruppe. «No. È solo il prodotto del suo ambiente. Non capisce altro che il principio: 'Io ho una pistola e tu no'».

Pirenne si girò di scatto, esasperato. «Ma cosa le è venuto in mente di parlare di basi militari e di tributi? È ammattito?».

«No. Gli ho soltanto dato corda e l'ho lasciato parlare. Avrà notato che ha finito per sputare il vero scopo di Anacreon... cioè suddividere Terminus in tante tenute. Naturalmente, non intendo permettere che questo avvenga».

«Lei non intende. Lei. Ma chi è, lei? E posso chiederle perché gli è andato a raccontare della nostra centrale atomica? È proprio quello che può trasformarci in un obiettivo militare».

«Sì», sorrise Hardin. «Un obiettivo militare da cui è meglio star lontani. Non ha capito perché ne ho parlato? Ho avuto la conferma di un mio sospetto».

«E sarebbe?».

«Anacreon non ha più centrali atomiche... e perciò, non ne ha più neppure il resto della Periferia. Non le sembra interessante?».

«Beh!». Pirenne se ne andò di pessimo umore, e Hardin sorrise con aria mite.

Gettò via il sigaro e alzò gli occhi verso la Galassia. «Sono tornati al petrolio e al carbone, no?» mormorò... E tenne per sé il resto dei suoi pensieri.

 

Quando Hardin negava di essere proprietario del Giornale, tecnicamente diceva la verità, ma solo tecnicamente. Hardin era stato l'animatore del movimento che aveva trasformato Terminus in una municipalità autonoma — ed era stato il primo sindaco eletto — quindi non era sorprendente che, anche se neppure un'azione del Giornale era intestata a lui, lo controllasse circa al sessanta per cento, in modi più o meno tortuosi.

I sistemi c'erano.

Perciò, quando Hardin cominciò a chiedere a Pirenne di essere autorizzato a presenziare alle riunioni della Commissione Fiduciaria, non fu una semplice coincidenza il fatto che il Giornale lanciasse una campagna nello stesso senso. E si tenne così la prima assemblea collettiva nella storia della Fondazione, per chiedere che la Città fosse rappresentata nel governo «nazionale».

Pirenne finì per capitolare, di malagrazia.

Hardin, seduto in fondo al tavolo, si chiedeva pigramente perché mai gli specialisti di scienze fisiche fossero amministratori tanto mediocri. Forse erano troppo abituati all'inflessibilità dei fatti scientifici e troppo poco alla flessibilità della gente.

Comunque, c'erano Tomaz Sutt e Jord Fara alla sua sinistra; Lundin Crast e Yate Fulham alla sua destra: e Pirenne, a capotavola, presiedeva la riunione. Li conosceva tutti, naturalmente, ma sembrava che avessero assunto per l'occasione un'aria più pomposa del solito.

Hardin sonnecchiò durante le formalità iniziali, poi rizzò gli orecchi quando Pirenne bevve un sorso d'acqua per prepararsi a parlare e disse:

«Ho il piacere di riferire alla Commissione che, dopo la nostra ultima riunione, sono stato informato che il nobile Dorwin, cancelliere dell'Impero, arriverà a Terminus fra due settimane. Possiamo star certi che le nostre relazioni con Anacreon verranno chiarite con nostra completa soddisfazione non appena l'imperatore sarà informato della situazione».

Sorrise e si rivolse a Hardin, che sedeva di fronte a lui. «Ho già passato la notizia al Giornale».

Hardin soffocò una risata. Evidentemente. Pirenne lo aveva ammesso nel sancta sanctorum soprattutto per sbandierargli sotto il naso quell'annuncio.

Hardin disse, impassibile: «Cerchiamo di evitare le espressioni vaghe: cosa prevede che farà il Nobile Dorwin?».

Fu Tomaz Sutt a rispondere. Quando era d'umore solenne aveva l'abitudine di rivolgersi a tutti usando la terza persona.

«È evidente», osservò, «che il sindaco Hardin è un cinico incallito. Non si rende conto che molto difficilmente l'imperatore tollererà qualche violazione dei suoi diritti personali».

«Perché? Cosa farebbe, in questo caso?».

Vi fu un mormorio di fastidio. Pirenne disse: «Non le ho dato la parola». Poi soggiunse, come ripensandoci: «E per giunta, le sue affermazioni sanno di tradimento».

«Devo considerarla come una risposta alla mia domanda?».

«Si! Se non ha altro da dire...»

«Non salti subito alle conclusioni. Vorrei chiedere una cosa. A parte questa mossa diplomatica, che può significare qualunque cosa, sono stati presi provvedimenti concreti per fronteggiare la minaccia di Anacreon?».

Yate Fulham si passò una mano sui feroci baffi rossi. «Lei ci vede una minaccia?».

«Lei no?».

«Non direi...». In tono indulgente. «L'imperatore...».

 

«Grande spazio!» Hardin era irritato. «Cos'è questa storia? Ogni tanto qualcuno dice 'l'imperatore' o 'l'impero' come se fossero parole magiche. L'imperatore è a cinquantamila parsec da qui. e non credo che si curi di noi. E anche se si curasse di noi, cosa potrebbe fare? I mezzi della marina spaziale dell'Impero che si trovavano da queste parti sono finiti nelle mani dei quattro regni, e Anacreon si è preso la sua fetta. Ascoltatemi: dobbiamo combattere con i cannoni, non con le parole.

«Mettetevelo bene in testa. Finora abbiamo ottenuto due mesi di respiro, soprattutto perché abbiamo fatto credere ad Anacreon che abbiamo armamenti atomici. Ebbene, sappiamo tutti che è una bugia. Abbiamo l'energia atomica, ma soltanto per uso commerciale, e ne abbiamo anche poca. Presto quelli lo scopriranno, e se pensate che saranno felici di essere stati presi in giro, vi sbagliate».

«Mio caro signore...»

«Un momento: non ho ancora finito». Hardin si stava scaldando. Quella situazione gli piaceva. «Sta bene chiamare in causa i cancellieri, ma sarebbe molto meglio chiamare in causa qualche grosso cannone con relative bombe atomiche. Abbiamo sprecato due mesi, signori, e forse non ne abbiamo altri due da perdere. Cosa vi proponete di fare?».

Gli rispose Lundin Crast, arricciando irosamente il lungo naso: «Se lei propone di militarizzare la Fondazione, non voglio neppure ascoltarla. Segnerebbe il nostro ingresso dichiarato in campo politico. Noi, signor sindaco, siamo una fondazione scientifica e niente altro».

Sutt soggiunse: «E per giunta, lui non si rende conto che per costruire armamenti dovremmo sottrarre uomini — uomini preziosi — all'Enciclopedia. E questo non possiamo farlo, qualunque cosa avvenga».

«Verissimo», lo approvò Pirenne. «Prima l'Enciclopedia... sempre».

Hardin gemette tra sé. La Commissione sembrava affetta da enciclopediomania.

Disse, in tono gelido: «La Commissione ha mai pensato che Terminus può avere altri interessi, oltre all'Enciclopedia?».

Pirenne rispose: «Hardin, io non concepisco che la Fondazione possa avere interessi al di fuori dell'Enciclopedia».

«Io non ho parlato della Fondazione: ho detto Terminus. Temo che non vi rendiate conto della situazione. Siamo più di un milione, qui su Terminus. e non più di centocinquantamila lavorano direttamente alla preparazione dell'Enciclopedia. Per gli altri, per noi, Terminus è la patria. Siamo nati qui. Viviamo qui. Di fronte alle nostre fattorie, alle nostre case e alle nostre fabbriche, per noi l'Enciclopedia conta poco. E vogliamo che siano protette...».

Gli altri lo azzittirono gridando.

«Prima l'Enciclopedia», sibilò Crast. «Abbiamo una missione da adempiere».

«Missione un accidente!» gridò Hardin. «Questo poteva essere vero cinquant'anni fa. Ma adesso c'è una nuova generazione».

«Questo non c'entra affatto», replicò Pirenne. «Noi siamo scienziati».

Hardin si lanciò all'attacco. «Ma lo siete davvero? È una piacevole allucinazione, no? Voi, qui, rappresentate un esempio perfetto di quello che non funziona nella Galassia intera, da millenni. Che razza di scienza è, restare bloccati qui per secoli a classificare l'opera degli scienziati dell'ultimo millennio? Avete mai pensato di andare avanti, di estendere la vostra conoscenza, di migliorarla? No! Siete felicissimi di stagnare. L'intera Galassia ristagna, e lo spazio solo sa da quanto. Ecco perché la Periferia si ribella; ecco perché le comunicazioni si sfasciano; ecco perché le guerricciole stanno diventando eterne; ecco perché interi sistemi stanno perdendo l'energia atomica e ritornano alle tecniche barbariche dell'energia chimica.

«Se volete sapere come la penso io», gridò, «la Galassia sta andando a rotoli!».

Hardin s'interruppe e si lasciò cadere sulla sedia per riprendere fiato, senza badare ai due o tre che tentavano simultaneamente di rispondergli.

Crast ebbe la meglio. «Non so cosa cerchi di ottenere con queste affermazioni isteriche, signor sindaco. Lei non sta dando un contributo costruttivo alla discussione. Propongo, signor presidente, che i commenti dell'ultimo oratore non siano messi a verbale e che la discussione riprenda dal punto in cui è stata interrotta».

Jord Fara si scosse, per la prima volta. Fino a quel momento non aveva partecipato al dibattito, neppure nei momenti più cruciali. Ma ora la sua voce ponderosa quanto la sua figura che pesava centoventi chili, tuonò in toni di basso.

«Non abbiamo dimenticato qualcosa, signori?».

«Che cosa?» chiese stizzosamente Pirenne.

«Fra un mese festeggeremo il nostro cinquantesimo anniversario». Fara riusciva a dire le banalità più ovvie con un tono di grande profondità.

«E con questo?».

«E in occasione dell'anniversario», continuò placido Fara, «si aprirà la Prima Cripta di Hari Seldon. Avete mai pensato cosa potrebbe esserci nella Prima Cripta?».

«Non lo so. Roba d'ordinaria amministrazione. Forse un discorso registrato di congratulazioni. Non credo sia il caso di attribuire uno speciale significato alla Prima Cripta... anche se il Giornale», disse Pirenne, lanciando un'occhiata a Hardin che rispose con un gran sorriso, «ha cercato di attribuirle grande importanza Ma io l'ho costretto a smetterla».

«Ah», disse Fara. «Ma forse sbaglia. Non le sembra...». S'interruppe per puntarsi l'indice sul naso minuto e rotondo, «che la Cripta si apra in un momento molto opportuno?».

«Molto inopportuno, vorrà dire», borbottò Fulham. «Abbiamo ben altre cose di cui preoccuparci».

«Cose più importanti di un messaggio di Hari Seldon? Non credo». Fara stava assumendo un'aria più pontificale che mai, e Hardin lo fissava pensieroso. Dove intendeva arrivare?

«Anzi», continuò allegramente Fara, «sembra che tutti dimentichiate che Seldon era il più grande psicologo del nostro tempo e che fu il creatore della nostra Fondazione. Mi sembra ragionevole presumere che si sia servito della sua scienza per determinare il probabile corso della storia nell'immediato futuro. Se lo ha fatto, come sembra probabile, ripeto, avrà sicuramente trovato il modo di metterci in guardia contro i pericoli e forse di indicarci una soluzione. L'Enciclopedia gli stava molto a cuore, lo sapete».

Predominava un'atmosfera di dubbio. Pirenne intervenne. «Ecco, non so. La psicologia è una grande scienza, ma... al momento non ci sono psicologi tra noi, credo. Ritengo che ci troviamo su un terreno incerto».

Fara si rivolse a Hardin. «Lei non ha studiato psicologia con Alurin?».

Hardin rispose, con aria sognante: «Sì. Ma non ho mai completato gli studi. Mi ero stancato della teoria. Volevo diventare ingegnere psicologico, ma non avevamo l'attrezzatura necessaria, perciò ripiegai sulla seconda scelta... mi diedi alla politica. In pratica è la stessa cosa».

«Bene, cosa pensa della Prima Cripta?».

E Hardin rispose, guardingo: «Non so».

Non disse più una parola per tutto il resto della riunione... anche se la discussione tornò sul cancelliere dell'Impero.

Anzi, non ascoltò neppure. Era stato messo su una nuova pista, e le cose stavano andando a posto... un po'. Qualche angolo cominciava a collimare... uno o due.

E la chiave era la psicologia. Ne era sicuro.

Stava cercando disperatamente di ricordare la teoria psicologica che aveva imparato un tempo... e subito pervenne a una conclusione.

Un grande psicologo come Seldon sapeva districare i sentimenti e le reazioni degli esseri umani quanto bastava per poter predire a grandi linee l'andamento storico del futuro.

E questo significava... uhm!

 

Il nobile Dorwin fiutava tabacco. Aveva i capelli molto lunghi, pettinati in riccioli complicati ed evidentemente artificiali; e alla chioma si aggiungeva un paio di morbidi favoriti biondi, che lui si accarezzava teneramente. Inoltre, parlava con una terminologia pignola e si mangiava tutte le erre.

Sul momento, Hardin non aveva il tempo di pensare ad altre ragioni che gli avessero inspirato quell'immediata antipatia per il nobile cancelliere. Oh, sì, i gesti eleganti della mano con cui accompagnava le sue osservazioni e la condiscendenza studiata che sottolineava anche l'affermazione più semplice.

Comunque, adesso il problema era rintracciarlo. Era scomparso insieme a Pirenne mezz'ora prima... letteralmente scomparso, accidenti a lui.

Hardin era certissimo che la sua assenza durante le discussioni preliminari sarebbe stata graditissima a Pirenne.

Ma Pirenne era stato visto in quell'ala e a quel piano del palazzo. Si trattava semplicemente di provare ad aprire ogni porta. Arrivato a metà del corridoio, Hardin esclamò «Ah!» ed entrò in una saletta buia. I contorni della complicata pettinatura del nobile Dorwin erano inconfondibili, sullo sfondo dello schermo illuminato.

Il nobile Dorwin alzò la testa e disse: «Ah, Havdin. Ci stava cevcando, sicuvamente». Porse la tabacchiera — troppo adorna e lavorata in modo mediocre, notò Hardin — e, dopo aver ricevuto un cortese rifiuto, si servi di un pizzico di tabacco e sorrise benevolmente.

Pirenne fece una smorfia che Hardin accolse con un'espressione di vacua indifferenza.

L'unico suono che infranse il breve silenzio fu lo scatto del coperchio della tabacchiera. Poi ii nobile Dorwin la rimise in tasca e disse:

«Una gvande vealizzazione, la vostva Enciclopedia, Havdin. Un'impvesa, divei, che mevita di esseve collocata tva i più gvandiosi tvionfi di tutti i tempi».

«Molti di noi la pensano così, monsignore. Tuttavia, è una realizzazione non ancora completamente realizzata».

«A giudicave da quel poco che ho visto dell'efficienza della vostva Fondazione, non ho timovi al viguavdo». Dorwin rivolse un cenno a Pirenne, che s'inchinò estasiato.

Quanta tenerezza, pensò Hardin. «Non mi lamentavo della mancanza di efficienza, monsignore, ma piuttosto dell'eccessiva efficienza degli anacreontiani... in una direzione ben diversa e più distruttiva».

«Ah. cevto, Anacveon». Un gesto negligente della mano. «Sono appunto avvivato di là. Un pianeta vevamente bavbavo. È vealmente inconcepibile che gli essevi umani possano viveve qui nella Pevifevia. Mancano i vequisiti più elementavi per un gentiluomo colto, le comodità più necessa vie per l'esistenza... e c'è il totale dispvegio in cui...»

Hardin l'interruppe in tono asciutto: «Gli anacreontiani, purtroppo, hanno tutti i requisiti necessari per la guerra e tutto ciò che serve per distruggere».

«È vevo, è vevo». Il Nobile Dorwin sembrava irritato, forse perché era stato interrotto a metà frase. «Ma non dobbiamo pavlavne ova, vede. Pev la vevità, sono impegnato altvimenti. Dottov Pivenne, non doveva mostvavmi il secondo volume? La pvego».

Le luci si spensero e, per la mezz'ora che segui, Hardin avrebbe anche potuto essere su Anacreon, per l'attenzione di cui lo degnarono. Il libro che passava sullo schermo non aveva molto senso, per lui, e del resto non cercava neppure di seguirlo. Ma a volte il nobile Dorwin si emozionava in modo molto umano. Hardin notò che, in quei momenti, il cancelliere pronunciava normalmente la erre.

 

Quando le luci si riaccesero, il nobile Dorwin disse: «Mevaviglioso. Davvevo mevaviglioso. Pev caso, lei non si intevessa di avcheologia, Havdin?».

«Eh?». Hardin si scosse dalle sue fantasticherie. «No, monsignore, non posso dire che mi interessi. Sono uno psicologo per intenzione iniziale e un politico per decisione finale».

«Ah! Sono studi senza dubbio intevessanti. Anch'io, sa...». Il cancelliere prese un pizzico gigantesco di tabacco. «Mi diletto di avcheologia».

«Davvero?».

«Sua signoria», s'intromise Pirenne, «ha una eccezionale competenza in materia».

«Beh, fovse, fovse», disse compiaciuta sua signoria. «Pev la vevità, ho lavovato pavecchio in questo campo. Ho letto moltissimo, anzi. Ho studiato tutte le opeve di Jawdun, Obijasi, Kvomwill... oh, pvopvio tutti, sa».

«Ne ho sentito parlare, naturalmente», disse Hardin. «Ma non li ho mai letti».

«Dovvebbe pvopvio favlo un giovno o l'altvo, mio cavo amico. Ne vicavevebbe gvandi soddisfazioni. Ecco, io vitengo che sia valsa la pena di fave questo viaggio fino alla Pevifevia per vedeve questa copia di Lameth. Lei non ci cvedevà, ma alla mia biblioteca manca. A pvoposito, dottov Pivenne, non avvà dimenticato la pvomessa di tvansviluppavne una copia pev me pvima della mia pavtenza!».

«Lo farò con piacere».

«Lameth, come dovveste sapeve», continuò il cancelliere, pontificando, «pvesenta una nuova e intevessantissima aggiunta alla mia pvecedente conoscenza della 'Questione dell'Ovigine'».

«Che questione?» chiese Hardin.

«La Questione dell'ovigine. Il luogo d'ovigine della specie umana, sa. Sicuvamente lei sapvà che si vitiene che in ovigine la vazza umana occupasse un solo sistema planetavio».

«Beh, si, questo lo so».

«Natuvalmente, nessuno sa di pveciso quale sistema fosse... è pevduto nelle bvume dell'antichità. Tuttavia, vi sono vavie teovie. Alcuni affevmano che fosse Sivio. Altvi insistono su Alpha Centauvi, o su Sol, o sulla 61 Cygni... tutti nel settove di Sivio, vede».

«E Lameth che cosa dice?».

«Ecco, pevcovve una stvada completamente nuova. Cevca di dimostvave che i vesti avcheologici sul tevzo pianeta del sistema avtuviano pvovano che l'umanità esisteva là pvima che vi fossevo dei voli spaziali».

«E ciò significa che quello fu il pianeta natale dell'umanità?».

«Può davsi. Devo leggeve attentamente il libvo e valutave le pvove pvima di potevne esseve cevto. Bisogna stabilive fino a che punto sono valide le sue affevmazioni».

Hardin tacque per qualche istante. Poi disse: «E Lameth, quando scrisse il suo libro?».

«Oh... divei civca ottocento anni ov sono. Natuvalmente, si eva basato sopvattutto sulla pvecedente opeva di Gleen».

«E allora perché contare su di lui? Perché non va ad Arcturus e non studia lei stesso quei resti?».

Il nobile Dorwin inarcò le sopracciglia e si affrettò a fiutare una presa di tabacco. «E pevché mai, mio cavo amico?».

«Per avere le informazioni di prima mano, ovviamente».

«Ma le sembva necessavio? Mi pave un metodo stvaovdinaviamente tovtuoso e avzigogolato pev concludeve qualcosa. Mi eveda, ho le opeve di tutti i vecchi maestvi... i gvandi avcheologi del passato. Le compavo... confvonto i dissensi... analizzo le affevmazioni contvastanti... decido quale è pvobabilmente esatta... e pevvengo a una conclusione. Questo è il vevo metodo scientifico. Almeno...» disse il cancelliere in tono condiscendente, «secondo me. Savebbe insoppovtabilmente gvossolano andare fino ad Avcturus, o a So, pev esempio, e givovagave qua e là, quando i vecchi maestvi hanno esaminato il pvoblema in modo molto più efficiente di quanto potvemmo spevave di fave noi».

Hardin mormorò educatamente: «Capisco».

Metodo scientifico, un accidente! Non c'era da stupirsi se la Galassia stava andando a rotoli.

«Venga, monsignore», disse Pirenne. «Credo sia meglio ritornare».

«Ah, sì. Fovse sì».

Mentre uscivano dalla saletta, Hardin disse improvvisamente: «Monsignore, posso farle una domanda?».

Il nobile Dorwin sorrise graziosamente e sottolineò la risposta con un gesto elegante della mano. «Cevtamente, mio cavo amico. Savò ben lieto di essevle utile. Se posso aiutavla con la mia modesta conoscenza...»

«Non si tratta d'archeologia, monsignore».

«No?»

«No. Si tratta di questo. L'anno scorso, qui su Terminus, abbiamo avuto notizia dell'esplosione di una centrale sul quinto pianeta di Gamma Andromedae. Abbiamo ricevuto solo pochi cenni sull'incidente... nessun particolare. Mi domando se lei potrebbe dirmi esattamente che cosa è successo».

Pirenne torse la bocca. «Mi sorprende che lei infastidisca sua signoria con domande su temi non pertinenti».

«Ma no, dottov Pivenne», fece il cancelliere. «Va benissimo. Non molto da dive al viguavdo, comunque. La centvale esplose e fu una veva catastvofe, sa. Cvedo che siano movti pavecchi milioni di pevsone e metà del pianeta sia stato vidotto in vovina. Per la vevità, il govevno sta pvendendo seviamente in considevazione la possibilità di impovve seveve vestizioni sull'uso indiscviminato dell'enevgia atomica... anche se non si tvatta di una questione di dominio pubblico, sa».

«Capisco», disse Hardin. «Ma cosa aveva la centrale che non andava?».

«Ecco», rispose il nobile Dorwin in tono indifferente, «chissà? Qualche anno pvima c'eva stata un'avavia e si vitiene che i pezzi di vicambio e le vipavazioni fossevo di qualità infeviove. È così difficile di questi tempi tvovave uomini che compvendano veramente i dettagli tecnici delle nostve centvali». E prese un altro pizzico di tabacco con aria di rammarico.

«Lei sa», disse Hardin, «che i regni indipendenti della Periferia hanno completamente perduto l'energia atomica?».

«Davvevo? Non mi sovpvende affatto. Sono pianeti bavbavi... Oh, ma mio cavo amico, non li chiami indipendenti. Non lo sono, sa. I tvattati che abbiamo concluso con lovo lo dimostvano. Viconoscono la sovvanità dell'Impevo. Dovevano favlo, natuvalmente, altvimenti non tvattevemmo con loro».

«Forse è così, ma hanno una considerevole libertà d'azione».

«Sì, mi pave. Considevevole. Ma questo ha poca impovtanza. L'Impevo si tvova molto meglio con la Pevifevia lasciata a se stessa... come è ova, più o meno. Non sapvemmo cosa favcene, sa. Sono pianeti bavbavi Scavsamente civilizzati».

«Erano civili in passato. Anacreon era una delle provincie periferiche più ricche. Mi risulta che reggesse il confronto con la stessa Vega».

«Oh, ma Havdin, eva così secoli addietvo. Non può tvavve conclusioni da questo fatto. Nei gvandi tempi andati le cose evano divevse. Non siamo più quelli di allova, sa. Ma, Havdin, andiamo, lei è un tipo molto insistente: le ho detto che oggi non voglio pavlave di queste cose. Il dottov Pivenne mi aveva avvevtito. Mi aveva detto che lei avvebbe cevcato di mettevmi con le spalle al muvo. Vimandiamo tutto a domani».

E questo era quanto.

 

Fu la seconda riunione della Commissione cui Hardin assisteva, escludendo le conversazioni non ufficiali che i membri della Commissione avevano avuto con il nobile Dorwin, ripartito nel frattempo. Tuttavia, il sindaco era convintissimo che ce ne fosse stata almeno un'altra, o magari due o tre, per le quali non aveva ricevuto l'invito.

E del resto pensava che non avrebbe ricevuto la convocazione neppure per quella, se non ci fosse stato l'ultimatum.

Almeno, equivaleva a un ultimatum, anche se una lettura superficiale del documento visigrafato poteva indurre a ritenere che si trattasse di un amichevole scàmbio di saluti tra due potentati.

Hardin lo teneva tra le dita, impacciato. Esordiva cerimoniosamente con un saluto di «Sua Maestà Potentissima il Re di Anacreon al suo amico e fratello, il dottor Lewis Pirenne, Presidente della Commissione Fiduciaria della Fondazione Numero Uno dell'Enciclopedia» e terminava con prodigalità anche più grande, con un gigantesco sigillo multicolore, simbolico e complicatissimo.

Ma era egualmente un ultimatum.

Hardin disse: «Dunque, non abbiamo avuto a disposizione molto tempo, dopotutto... soltanto tre mesi. Ma anche se era poco, lo abbiamo buttato via. Questo documento ci dà una settimana. E adesso che cosa facciamo?».

Pirenne aggrottò la fronte, preoccupato. «Deve esserci una scappatoia. È assolutamente incredibile che possano spingersi agli estremi, dopo le assicurazioni che abbiamo ricevuto dal nobile Dorwin circa l'atteggiamento dell'imperatore e dell'Impero».

Hardin si scosse. «Capisco. Ha informato il re di Anacreon di questo atteggiamento?».

«L'ho fatto... dopo aver presentato la proposta alla Commissione e aver ricevuto un consenso unanime».

«E quando c'è stata la votazione?».

Pirenne assunse un'aria estremamente dignitosa. «Non credo di essere tenuto a rispondere a Lei, sindaco Hardin».

«D'accordo. Non è che la cosa m'interessi molto. Ma sono convinto che l'inoltro per via diplomatica del prezioso contributo del nobile Dorwin alla situazione...» Hardin contrasse un angolo della bocca in un sorrisetto acido, «sia stata la causa diretta di questo bigliettino amichevole. Altrimenti forse avrebbero procrastinato... anche se non credo che l'eventuale tempo in più sarebbe servito a Terminus, considerando l'atteggiamento della Commissione».

Yate Fulham disse: «E come è arrivato a questa conclusione sensazionale, signor sindaco?».

«In modo piuttosto semplice. Richiedeva soltanto l'uso di un bene molto trascurato... il buon senso. Vede, esiste una branca dello scibile umano conosciuta come logica simbolica, che può venire adoperata per potare tutto il legno morto di cui è oppresso e soffocato il linguaggio umano».

«Allora?» chiese Fulham.

«Io l'ho applicata. Tra le altre cose, l'ho applicata a questo documento. Non ne avevo bisogno per me stesso, perché sapevo di cosa si trattava, ma credo di poterlo spiegare a cinque fisici più facilmente per mezzo di simboli che per mezzo di parole».

Hardin staccò alcuni fogli dal blocco che teneva sotto il braccio e li sparse sul tavolo. «Non l'ho fatto io, a proposito», disse. «Come potete vedere, le analisi le ha firmate Muller Holk, della Divisione di Logica».

 

Pirenne si chinò sul tavolo per vedere meglio e Hardin proseguì: «Il messaggio di Anacreon era un problema semplice, naturalmente, perché coloro che l'hanno redatto sono uomini d'azione, anziché uomini di parole. Si riduce facilmente e direttamente all'affermazione incondizionata, che in simboli è quel che vedete e che in parole si traduce approssimativamente così: 'Dateci quel che vogliamo in una settimana, altrimenti vi conciamo per le feste e ce lo prendiamo da soli'».

Vi fu un silenzio mentre i cinque membri della Commissione esaminavano la fila di simboli. Quindi Pirenne sedette e tossì impacciato.

Hardin chiese: «Non c'è nessuna scappatoia, vero, dottor Pirenne?»

«Sembra di no».

«Sta bene». Hardin riordinò i fogli. «Quella che vede davanti a lei è una copia del trattato fra l'Impero e Anacreon... un trattato, tra parentesi, firmato a nome dell'imperatore dallo stesso nobile Dorwin che è stato qui la settimana scorsa... e c'è la relativa analisi simbolica».

Il trattato occupava cinque pagine in caratteri minutissimi, e l'analisi era scarabocchiata su mezza pagina.

«Come vedete, signori, all'incirca il novanta per cento del trattato è stato eliminato dall'analisi perché privo di significato; e ci ritroviamo con qualcosa che può essere espresso nel modo seguente, molto interessante:

«Obblighi di Anacreon verso l'Impero: Nessuno!

«Poteri dell'Impero su Anacreon: Nessuno!» Ancora una volta i cinque seguirono ansiosamente il ragionamento, confrontando con attenzione il testo del trattato. Quando ebbero finito, Pirenne disse, preoccupato: «Sembra sia esatto».

«Allora ammette che il trattato non è altro che una dichiarazione di totale indipendenza da parte di Anacreon e un riconoscimento di tale stato di cose da parte dell'Impero?»

«A quanto sembra».

«E lei ritiene che Anacreon non se ne renda conto, e non desideri consolidare la sua posizione d'indipendenza... e che non tenda naturalmente a risentirsi di ogni parvenza di minaccia da parte dell'Impero? In particolare quando è evidente che l'Impero non è in grado di mettere in atto una tale minaccia, altrimenti non avrebbe mai concesso l'indipendenza».

«Ma allora», s'intromise Sutt, «come può il sindaco Hardin spiegare le assicurazioni di appoggio da parte dell'Impero che ci ha dato il nobile Dorwin? Sembravano...». E scrollò le spalle. «Ecco, sembravano soddisfacenti».

Hardin si abbandonò contro la spalliera della sedia. «Vede, è la parte più interessante dell'intera faccenda. Ammetto di aver gudicato sua signoria un somaro fatto e finito, appena l'ho conosciuto... ma poi ho scoperto che in realtà era un abilissimo diplomatico e un uomo molto intelligente. Mi sono preso la libertà di registrare tutte le sue affermazioni».

Ci fu un'agitazione generale e Pirenne aprì la bocca, inorridito.

«E allora?» chiese Hardin. «Mi rendo conto che è stato una violazione grossolana delle leggi dell'ospitalità, qualcosa che un cosiddetto gentiluomo non farebbe mai. Inoltre, se sua signoria se ne fosse accorta, poteva essere spiacevole; ma non se ne è accorta, e io ho la registrazione, e questo è quanto. Ho mandato anche quella a Holk perché l'analizzasse».

Lundin Crast chiese: «E dov'è l'analisi?»

«Questo», rispose Hardin, «è il fatto interessante. L'analisi è stata di gran lunga la più difficile delle tre. Quando Holk, dopo due giorni di continuo lavoro, è riuscito a eliminare le affermazioni prive di significato, le chiacchiere vaghe, le precisazioni inutili, insomma, tutto il superfluo, s'è accorto che non era rimasto niente. Tutto annullato.

«Signori, in cinque giorni di discussioni il nobile Dorwin non ha detto assolutamente nulla, e l'ha fatto in modo tale che non ve ne siete neppure accorti. Queste sono le assicurazioni che voi avete ricevuto dal vostro caro Impero».

Se Hardin avesse messo una bombetta puzzolente sul tavolo, non avrebbe creato una confusione più grande di quella che segui la sua ultima affermazione. Attese, con stanca pazienza, che l'agitazione si calmasse.

«Quindi», concluse, «quando avete inviato le minacce — perché si trattava di minacce — circa l'intervento dell'Impero ad Anacreon, siete soltanto riusciti a irritare un monarca che sapeva bene come stavano le cose. Naturalmente, il suo amor proprio gli imponeva di agire immediatamente e l'ultimatum è il risultato... il che mi riporta alla mia affermazione iniziale. Ci resta una settimana soltanto: che cosa faremo?».

«A quanto pare», disse Sutt, «non abbiamo altra scelta che permettere ad Anacreon di creare basi militari su Terminus».

«In quanto a questo sono d'accordo con lei», rispose Hardin. «Ma cosa faremo per buttarli di nuovo fuori alla prima occasione?».

Yate Fulham agitò i baffi. «Parla come se avesse deciso che dovremo usare la violenza contro di loro».

«La violenza», ribatté Hardin, «è l'ultimo rifugio degli incapaci. Ma di certo non intendo stendere i tappeti rossi e spolverare i mobili migliori perché li usino loro».

«Continua a non piacermi il modo in cui si è espresso», insistette Fulham. «È un atteggiamento pericoloso; e lo è tanto di più perché abbiamo notato, ultimamente, che una parte consistente della popolazione sembra adeguarsi con prontezza a tutti i suoi suggerimenti. Tanto vale che glielo dica, sindaco Hardin: la Commissione è al corrente delle sue recenti attività».

Fulham fece una pausa, e gli altri mormorarono il loro assenso. Hardin alzò le spalle.

Fulham prosegui: «Se lei dovesse scatenare la Città e indurla a un atto di violenza, riuscirebbe a causare un complesso suicidio... e noi non intendiamo permetterlo. La nostra politica ha un solo principio cardinale, l'Enciclopedia. Qualunque cosa decideremo di fare o di non fare verrà deciso perché sarà la misura necessaria per la sicurezza dell'Enciclopedia».

«Allora», disse Hardin. «siete arrivati alla conclusione che dobbiamo continuare con il massimo impegno a non far niente».

Pirenne ribatté, con amarezza: «Lei stesso ha dimostrato che l'Impero non può aiutarci; anche se non capisco come e perché sia così. Se è necessario un compromesso...»

Hardin aveva la sensazione d'incubo di correre come un pazzo senza arrivare in nessun posto. «È possibile rifiutare un compromesso? Non si rende conto che questa storiella delle basi militari è soltanto un pretesto di pessima qualità? Haut Rodric ci ha detto quel che vuole Anacreon... l'annessione e l'imposizione del suo sistema feudale, e del sistema economico basato sulle proprietà terriere e l'aristocrazia agrìcola. Il nostro bluff sull'energia atomica li costringerà forse a muoversi lentamente, ma si muoveranno comunque».

Hardin si era alzato, indignato, e gli altri s'erano alzati con lui... escluso Jord Fara.

E poi Jord Fara parlò. «Sedetevi tutti, vi prego. Ci siamo spinti anche troppo oltre, credo. Suvvia, non c'è bisogno di infuriarsi tanto, sindaco Hardin: nessuno di noi ha commesso un atto di tradimento».

«Questo dovrà dimostrarmelo!»

Fara sorrise gentilmente. «Sa bene che non lo pensa davvero. Mi lasci parlare!»

Teneva semichiusi gli occhietti astuti, e il sudore luccicava sull'ampio mento. «Sembra sia inutile nascondere che la Commissione ha deciso che la vera soluzione del problema di Anacreon stia in quello che ci verrà rivelato quando, fra sei giorni, si aprirà la Prima Cripta».

«E questo è il vostro contributo alla faccenda?»

«Sì».

«Non dobbiamo far nulla, è così? Aspettare con tranquilla serenità e fede assoluta che il deus ex machina esca dalla Prima Cripta?»

«Spogliata dalla fraseologia emotiva, l'idea è appunto questa».

«È una volgare evasione! Davvero, dottor Fara, una simile pazzia odora di genio. Una mente meno grande ne sarebbe incapace».

Fara sorrise con indulgenza. «La sua passione per gli epigrammi è divertente, Handin, ma fuori luogo. Per la precisione, credo che lei ricordi ciò che ho detto a proposito della Prima Cripta, tre settimane fa».

«Sì, lo ricordo. Non nego che fosse un'idea tutt'altro che stupida, dal punto di vista della logica deduttiva. Lei ha detto — e mi interrompa se sbaglio — che Hari Seldon era il più grande psicologo del Sistema; che, quindi, poteva prevedere la scomoda e difficile situazione in cui ci troviamo ora; e che perciò creò la Prima Cripta per indicarci la via d'uscita».

«Ha afferrato l'idea».

«La sorprenderebbe sapere che ci ho pensato parecchio, in queste ultime settimane?»

«Molto lusinghiero. Con quale risultato?»

«Con il risultato che la deduzione pura è insufficiente. Ancora una volta, occorre un pizzico di buon senso».

«Per esempio?»

«Per esempio, se Seldon aveva previsto il guaio con Anacreon, perché non ci avrebbe situati su un altro pianeta, più vicino ai centri galattici? Perché ci ha insediati qui, se poteva prevedere l'interruzione delle linee di comunicazione, il nostro isolamento dalla Galassia, la minaccia rappresentata dai nostri vicini... e la nostra impotenza a causa della carenza di metalli su Terminus? Soprattutto questo! Oppure, se aveva previsto tutto questo, perché non avvertì in anticipo i primi abitanti, in modo che avessero il tempo di prepararsi, anziché attendere, come ha fatto, il momento in cui stiamo per cadere nel precipizio?

«E non dimentichi questo. Anche se lui poteva prevedere il problema allora, noi possiamo vederlo con altrettanta chiarezza adesso. Quindi, se Seldon poteva prevedere la soluzione allora, adesso noi dovremo essere in grado di trovarla. Dopotutto, Seldon non era un mago. Non ci sono metodi prodigiosi per sfuggire a un dilemma, metodi che lui poteva vedere e noi no».

«Ma, Hardin», gli ricordò Fara, «noi non possiamo!»

«Ma non avete tentato. Non avete tentato neppure una volta. Prima avete rifiutato di ammettere che ci fosse la minaccia. Poi avete riposto una fede assolutamente cieca nell'imperatore. Adesso l'avete trasferita su Hari Seldon. Dall'inizio alla fine, avete invariabilmente contato su un'autorità o sul passato... mai su voi stessi».

Hardin strinse convulsamente i pugni. «È una mentalità malsana... un riflesso condizionato che rifiuta l'indipendenza della vostra intelligenza, ogni volta che si tratta di opporsi all'autorità. Sembra che non dubitiate affatto che l'imperatore è più potente di voi, o che Hari Seldon è più saggio. E questo è un errore, non capite?»

Chissà perché, nessuno se la senti di rispondere.

 

Hardin continuò: «Non si tratta soltanto di voi. È l'intera Galassia. Pirenne ha sentito quale è l'idea che il nobile Dorwin si fa della ricerca scientifica. Il nobile Dorwin riteneva che il modo per diventare buoni archeologi fosse leggere tutti i libri sull'argomento... scritti da uomini che sono morti da secoli. Riteneva che il sistema per risolvere gli enigmi archeologici consistesse nel comparare e soppesare i diversi autori. E Pirenne lo ha ascoltato senza fare obiezioni. Non capite che c'è qualcosa che non va in tutto questo?»

Ancora una volta, nella sua voce si insinuò una nota quasi implorante. E ancora un volta nessuno rispose.

Hardin continuò: «E voi, e anche una buona metà di Terminus, non siete molto diversi. Ce ne stiamo qui seduti e pensiamo che l'Enciclopedia sia l'unica cosa che conta. Riteniamo che il fine più grande della scienza sia la classificazione dei dati del passato. Sono importanti, sì, ma davvero non c'è nessun altro lavoro da compiere? Stiamo arretrando e dimenticando, non capite? Qui nella Periferia hanno perduto l'energia atomica. Su quel pianeta di Gamma Andromedae, una centrale è esplosa a causa delle riparazioni inefficienti, e il cancelliere dell'Impero si è lagnato perché i tecnici atomici sono troppo pochi. E la soluzione? Prepararne altri? Mai! Invece, stanno pensando di porre restrizioni all'energia atomica».

E per la terza volta: «Non capite? È un fenomeno che investe l'intera Galassia. È un culto del passato. È un deterioramento... una stagnazione!»

Girò lo sguardo dall'uno all'altro: e quelli lo guardarono fissamente. Fara fu il primo a riprendersi. «Bene, la filosofia mistica non ci sarà di grande aiuto in questo caso. Siamo pratici. Lei nega che Hari Seldon avrebbe potuto individuare le tendenze storiche del futuro con la semplice tecnica psicologica?»

«No, naturalmente no!» esclamò Hardin. «Ma non possiamo contare su di lui, per una soluzione. Nella migliore delle ipotesi, lui potrebbe indicare il problema, ma se mai ci dovrà essere una soluzione, dobbiamo trovarla da soli. Non può farlo lui al nostro posto».

Fulham intervenne all'improvviso. «Perché ha detto 'indicare il problema'? Il problema lo conosciamo».

Hardin si girò di scatto verso di lui. «Credete davvero di conoscerlo? Credete che Hari Seldon si sia preoccupato esclusivamente di Anacreon? Non sono d'accordo! Vi dico, signori, che finora nessuno di voi ha la più vaga idea di ciò che sta accadendo in realtà».

«E lei ce l'ha?» chiese Pirenne in tono ostile.

«Credo di sì!» Hardin balzò in piedi e scostò la sedia. I suoi occhi erano freddi e duri. «Se c'è una cosa certa, è che c'è qualcosa che puzza, nell'intera situazione: qualcosa di molto più grosso di tutto ciò che abbiamo discusso finora. Si domandi questo: Perché, nella popolazione originale della Fondazione, non era incluso neppure uno psicologo di primordine. eccettuato Bor Alurin? E lui si asteneva scrupolosamente dall'insegnare ai suoi allievi qualcosa di più degli elementi fondamentali».

Un breve silenzio, poi Fara chiese: «Sta bene. Perché?»

«Forse perché uno psicologo avrebbe potuto capire di cosa si trattava... e troppo presto, per i piani di Hari Seldon. Così, invece, abbiamo continuato a brancolare, a ìntravvedere nebulosamente la verità e nulla di più. Ed è questo che voleva Hari Seldon».

Rise, seccamente. «Buongiorno, signori!».

E uscì.

 

Il sindaco Hardin mordicchiò il sigaro. S'era spento, ma lui non se ne accorgeva. La notte prima non aveva dormito, e prevedeva che non avrebbe dormito neppure la notte seguente. E i suoi occhi lo mostravano.

Chiese, stancamente: «E questo è tutto?»

«Credo di sì». Yohan Lee appoggiò il mento sulla mano. «Come le sembra?»

«Niente male. È necessario che sia fatto con impudenza, capisce? Cioè, non devono esserci esitazioni: non devono avere il tempo di afferrare la situazione. Quando saremo in condizioni di dare ordini, dovremo darglieli come se fossimo nati apposta per farlo, e quelli obbediranno per forza d'abitudine. L'essenza del colpo di mano è proprio questa».

«Se la Commissione resterà perpetuamente indecisa...»

«La Commissione? La escluda pure. Dopodomani, la sua importanza quale fattore negli affari di Terminus sarà inferiore a quella di un mezzo credito arrugginito».

Lee annui lentamente. «Eppure è strano che finora non abbiano fatto nulla per fermarci. Lei sostiene che non erano completamente all'oscuro».

«È quel che ha fatto capire Fara. E Pirenne ha sempre sospettato di me da quando sono stato eletto. Ma, vede, non sono mai stati capaci di comprendere veramente cosa si stava preparando. La lora intera educazione è stata autoritaria. Sono sicuri che l'imperatore sia onnipotente perché è l'imperatore. E sono sicuri che la Commissione Fiduciaria, semplicemente perché è la Commissione Fiduciaria e agisce in nome dell'Imperatore, non possa trovarsi in condizioni di non dare ordini. Questa incapacità di riconoscere la possibilità di una ribellione è la nostra migliore alleata».

Hardin si alzò pesantemente dalla sedia e si avvicinò al distributore d'acqua. «Non sono niente male, Lee, quando si occupano della loro Enciclopedia... e faremo in modo che continuino a occuparsene per il futuro. Sono irrimediabilmente incapaci, invece, quando si tratta di governare Terminus. Ora vada, e metta in moto gli ingranaggi. Voglio restare solo».

Sedette sull'angolo della scrivania e fissò il bicchier d'acqua.

Spazio! Se almeno fosse stato veramente sicuro come fingeva d'essere! Gli anacreontiani sarebbero sbarcati tra due giorni, e lui non disponeva d'altro che di una serie di nozioni e di intuizioni circa ciò che Hari Seidon aveva preparato per quegli ultimi cinquant'anni. Lui non era neppure un autentico psicologo... era solo un dilettante, con una preparazione parziale, e stava cercando di battere in fatto di intuizioni il genio più grande di quell'epoca.

Se Fara aveva ragione, se Anacreon era l'unico problema previsto da Hari Seldon, se l'Enciclopedia era l'unica cosa che aveva aspirato a conservare... quale sarebbe stato il prezzo del colpo di stato?

Hardin alzò le spalle e bevve l'acqua.

 

La Prima Cripta conteneva ben più di sei sedie, come se fosse stata prevista una presenza più numerosa. Hardin lo notò, pensosamente, e sedette in un angolo, il più lontano possibile dagli altri cinque.

I membri della Commissione non trovarono nulla da ridire in proposito. Parlavano sottovoce tra loro, passando via via a monosillabi sibilanti e poi al silenzio. Tra tutti, soltanto Jord Fara appariva ragionevolmente calmo. Aveva tirato fuori l'orologio e lo fissava con aria cupa.

Hardin diede un'occhiata al proprio orologio e poi al cubicolo di vetro assolutamente vuoto che dominava metà della saletta. Era l'unico elemento inconsueto, lì dentro, perché a parte quello nulla indicava che chissà dove un piccolissimo quantitativo di radio si stesse disintegrando per giungere al preciso momento in cui sarebbe scattato un relai, si sarebbe stabilito un collegamento e...

Le luci si affievolirono!

Non si spensero: divennero gialle e più fioche, con una subitaneità che fece trasalire Hardin. Alzò sbalordito gli occhi verso le lampade del soffitto e. quando lì riabbassò, il cubicolo di vetro non era più vuoto.

C'era una figura... una figura su una poltrona a rotelle!

L'uomo non disse nulla per qualche istante, ma chiuse il volume che teneva sulle ginocchia e l'accarezzò pigramente. Poi sorrise; il suo volto sembrava vivo.

Disse: «Sono Hari Seldon». La voce era vecchia e sommessa.

Hardin si alzò, come per rispondere alla presentazione, e poi si trattenne.

La voce continuò in tono discorsivo: «Non posso vedervi, sapete, quindi non posso salutarvi come sarebbe doveroso. Non so neppure quanti siate, quindi dovrò usare una procedura informale. Se qualcuno di voi è in piedi, lo prego di sedersi; e se qualcuno vuole fumare, faccia pure: non mi dispiace». Una breve risata. «Perché dovrebbe dispiacermi? In realtà io non ci sono».

Automaticamente, Hardin si frugò in tasca per cercare un sigaro, poi cambiò idea.

Hari Seldon depose il libro — come se lo mettesse su una scrivania al suo fianco — e quando le sue dita lo lasciarono, il volume scomparve.

Disse: «Sono trascorsi ormai cinquant'anni da quando è stata creata questa Fondazione... cinquant'anni durante i quali i membri della Fondazione hanno ignorato lo scopo per il quale stavano lavorando. Era necessario che rimanessero all'oscuro: ma ora tale necessità non esiste più.

«La Fondazione dell'Enciclopedia, tanto per incominciare, è un inganno, e lo è sempre stata!»

Dietro Hardin ci furono trepestio improvviso e un paio di esclamazioni soffocate, ma lui non si voltò.

 

Hari Seldon, ovviamente, era imperturbato. Proseguì: «È un inganno nel senso che a me e ai miei colleghi non interessa affatto che venga pubblicato anche un solo volume dell'Enciclopedia. È servita allo scopo, perché ci ha permesso di ottenere uno statuto dall'imperatore, di attirare i centomila scienziati necessari al nostro piano, e di tenerli impegnati mentre gli eventi prendevano forma, fino a quando fosse troppo tardi perché qualcuno di loro potesse tirarsi indietro.

«Nei cinquant'anni che avete trascorso lavorando per questo progetto truffaldino — è inutile usare eufemismi — ogni via di ritirata è stata tagliata, e adesso non potete far altro che passare al progetto infinitamente più importante che era ed è il nostro vero piano.

«Per tale scopo vi abbiamo insediati su questo pianeta e in un momento tale che, in questi cinquant'anni, siete stati manovrati al punto di non avere più libertà d'azione. D'ora in poi, nei secoli futuri, la strada che dovrete seguire è inevitabile. Vi troverete di fronte a una serie di crisi, come ora vi trovate di fronte alla prima, e in ciascun caso la vostra libertà d'azione sarà altrettanto circoscritta, in modo che sarete costretti a procedere lungo una strada, e lungo quella soltanto.

«È la strada preparata dalla nostra psicologia... e per una precisa ragione.

«Da secoli la civiltà galattica è stagnante e in declino, anche se pochissimi se ne sono resi conto. Ma ora, almeno, la Periferia si sta staccando e l'unità politica dell'Impero si è infranta. È a un dato punto dei cinquant'anni appena trascorsi che gli storici del futuro tireranno una linea arbitraria e diranno: 'Questa segna la Caduta dell'Impero Galattico'.

«E avranno ragione, anche se difficilmente qualcuno riconoscerà tale Caduta ancora per molti secoli.

«E dopo la Caduta verrà l'inevitabile barbarie, un periodo che, come ci rivela la nostra psicostoria, in circostanze normali durerebbe dai trenta ai cinquantamila anni. Non possiamo impedire la Caduta. Non vogliamo neppure farlo: perché la cultura dell'Impero ha perduto la vitalità e il valore che aveva un tempo. Ma possiamo abbreviare il periodo di barbarie che seguirà... riducendolo a mille anni soltanto.

«Non possiamo rivelarvi i dettagli di questa abbreviazione, come non potevamo dirvi cinquant'anni fa la verità sul conto della Fondazione. Se scopriste questi dettagli, il nostro piano potrebbe fallire, come sarebbe fallito se aveste compreso prima l'inganno dell'Enciclopedia; perché allora, attraverso la conoscenza, la vostra libertà d'azione si amplierebbe e il numero delle variabili addizionali diventerebbe superiore a quello che la nostra psicologia può trattare.

«Ma non li scoprirete, perché su Terminus non ci sono psicologi, e non ci sono mai stati, eccettuato Alurin... che era uno dei nostri.

«Ma posso dirvi questo: Terminus e la Fondazione gemella, all'estremità opposta della Galassia, sono i semi del Rinascimento e i futuri fondatori del Secondo Impero Galattico. Ed è la crisi attuale che lancerà Terminus verso tale culmine.

«Questa, tra l'altro, è una crisi piuttosto netta, molto più semplice di molte di quelle successive. Per ridurla ai fattori fondamentali, ecco di che si tratta: il vostro pianeta è stato improvvisamente isolato dai centri tuttora civili della Galassia, ed è minacciato dai vicini più forti. È un piccolo mondo di scienziati, circondato da aree di barbarie immense e in rapida espansione. Siete un'isola d'energia atomica in un oceano sempre più vasto d'energia più primitiva, ma nonostante questo siete impotenti, perché non avete metalli.

«Perciò vi rendete conto che vi trovate di fronte a una dura necessità e che siete costretti ad agire. Il carattere di tale azione — cioè la soluzione del vostro dilemma — è naturalmente ovvio!».

L'immagine di Hari Seldon protese la mano nell'aria e afferrò di nuovo il volume. L'aprì e disse:

«Ma quale che sia il corso tortuoso assunto dalla vostra storia futura, ricordate sempre ai vostri discendenti che la strada è segnata, e che condurrà a un nuovo, più grande Impero!»

Chinò lo sguardo sul libro e nello stesso istante scomparve.

 

Hardin alzò la testa e vide Pirenne davanti a lui, con un'espressione tragica negli occhi e le labbra tremanti.

La voce del presidente era ferma ma atona. «A quanto sembra, lei aveva ragione. Se vorrà presentarsi questa sera alle sei, la Commissione la consulterà circa la prossima mossa».

Gli strinsero la mano, uno ad uno, e uscirono, e Hardin sorrise tra sé. Erano fondamentalmente onesti: erano scienziati quando bastava per ammettere di avere sbagliato... ma per loro era troppo tardi.

Diede un'occhiata all'orologio. Ormai era tutto finito. Gli uomini di Lee avevano assunto il comando e la Commissione non dava più ordini.

L'indomani sarebbero atterrate le prime astronavi degli anacreontiani, ma anche questo andava bene. Tra sei mesi, anche loro non avrebbero più dato ordini.

Infatti, come aveva detto Hari Seldon, e come Salvor Hardin aveva intuito fin dal giorno in cui Anselm Haut Rodric gli aveva rivelato che Anacreon non possedeva l'energia atomica, la soluzione di quella prima crisi era ovvia.

Ovvia come l'inferno!

 

La spinta di un dito

The Push of a Finger

di Alfred Bester

Astounding SF, Maggio

 

Sebbene Alfred Bester fosse apparso sulle riviste fantascientifiche già dal 1939, diventò un personaggio importante soltanto all'inizio degli Anni Cinquanta, quando una dozzina di eccezionali racconti e gli indimenticabili romanzi L'uomo disintegrato (1953) e La tigre della notte (1956) consolidarono la sua fama rivelandolo come uno dei maggiori innovatori della science fiction. Tuttavia, aveva dato prova del suo talento molto tempo prima, in racconti come Adamo senza Eva (vedere il volume 3) e quello che vi presentiamo.

«La spinta di un dito» è una vicenda divertente e brillante imperniata sulla necessità di adattarsi e sulle conseguenze dell'incapacità di adattarsi, e contiene tutti gli ingredienti che, un decennio più tardi, avrebbero imposto Alfie Bester in prima fila, nel mondo della fantascienza.

 

(Adesso che ci ripenso, Alfie sembrava proprio tallonarmi. Quando io pubblicai «Cade la notte», lui presentava nello stesso numero «Adamo senza Eva»; e a quel tempo sembrò che la gente prestasse più attenzione al suo racconto. Poi, quando io pubblicai «La Fondazione», Alfie era presente con «La spinta di un dito» e ancora una volta... Ma non ha importanza. Alfie aveva un animo così gentile che è impossìbile immaginare che lo facesse per cattiveria. Anzi, quando incontravi Alfie incautamente, lui ti baciava, e io mi premunivo sempre piazzandomi dietro a qualcun altro quando dovevo salutarlo. - I.A.)

 

Credo che sia ora che qualcuno raduni tutti quei racconti e li bruci. Sapete bene a che cosa mi riferisco... X, lo scienziato pazzo, vuole cambiare il mondo; Y. il dittatore spietato, vuole dominare il mondo; Z, il pianeta alieno, vuole distruggere il mondo.

Lasciate che vi racconti una storia diversa. Parla di un mondo intero che voleva dominare un uomo... di un pianeta popolato di gente che dava la caccia a un individuo con l'intento di cambiare la sua vita, si, e addirittura di annientarlo, se fosse stato necessario. È la storia di un uomo opposto alla Terra intera, ma con le posizioni invertite.

C'è un posto, a Manhattan City, che non è molto conosciuto. Non conosciuto, voglio dire, nel senso che il nucleo cellulare non venne conosciuto fino a quando gli scienziati non cominciarono ad afferrare l'idea generale. Era un nucleo cellulare mai scoperto, e credo che ancora oggi non sia stato scoperto. È il perno del nostro universo. Tutto ciò che squassa il mondo proviene da li; e abbastanza stranamente, ogni scossone che ne proviene ha lo scopo di evitare sconvolgimenti ancora più gravi.

Adesso non fate domande. Ve lo spiegherò strada facendo.

La ragione per cui un uomo non sa niente di questo particolare nucleo è che probabilmente impazzirebbe, se lo sapesse. Le nostre autorità fanno in modo che rimanga segreto e anche se certi ficcanaso strillerebbero come aquile se scoprissero che qualcosa viene tenuto nascosto al grosso pubblico, chiunque abbia un po' di buon senso riconoscerà che è meglio così.

È un palazzo bianco, squadrato, alto circa dieci piani, e ha l'aria dell'ospedale abbandonato. Verso le nove del mattino potete vedere arrivare un paio di dozzine di cittadini dall'aspetto molto comune, e al termine della giornata lavorativa alcuni di loro se ne vanno. Ma ce ne sono parecchi che restano a fare gli straordinari e lavorano fino all'alba, o a un paio di albe più tardi. Hanno cura di tenere sempre le finestre chiuse, in modo che i cittadini zelanti non vedano le luci e non si precipitino nell'ufficio del controllore a protestare contro gli straordinari e la violazione della Stabilità. Inoltre, si dà il caso che siano autorizzati.

Sì, è veramente una cosa grossa. Quei tizi sono così importanti, e il loro lavoro è così importante che sono autorizzati a violare l'unica legge inviolabile. Possono fare gli straordinari. Anzi, per quel che li riguarda possono fare tutto quel cavolo che vogliono, Stabilità o non Stabilità... perché sono proprio loro a mantenere la Stabilità. Come? Calma. Abbiamo tutto il tempo... e ve lo spiegherò.

Si chiama Prog Building, e viene frequentato regolarmente dai giornalisti, come i tribunali della polizia un paio di secoli fa. Ogni quotidiano ci manda un cronista, alle tre. I cronisti oziano e protestano per un po', e poi qualche pezzo grosso concede un'intervista e parla di polìtica e di economia e della situazione attuale e futura del mondo. Di solito è parecchio noioso, ma di tanto in tanto salta fuori qualcosa di veramente grosso, come quella volta che decisero di prosciugare il Mediterraneo. Loro...

Cosa?

Non ne ha mai sentito parlare? Ehi, ma chi è quel tale? Sta scherzando? Ha passato tutta la vita sulla luna? Mai stato sul pianeta patrio? Mai saputo come vanno le cose? Un autentico ignorante cosmico. Amico, mi lascia di stucco. Credevo che la sua specie si fosse estinta prima che io nascessi. Bene, si accomodi e faccia pure le sue domande quando crede. Forse adesso sarà bene che io mi scusi per lo slang. Fa parte del gioco giornalistico. Forse qualche volta non ce la farà a capirmi, ma io ho un cuore d'oro.

 

Comunque... andai come al solito alle tre al Prog Building e quel giorno particolare, anzi, ci arrivai in anticipo. A quanto pareva, il la Trib aveva mandato un cronista nuovo, un certo Halley Hogan, che io non conoscevo. Volevo incontrarmi con lui e parlare della linea da adottare. Per edificazione dell'eremita arrivato dalla luna, spiegherò che i giornali di ogni città non possono adottare lo stesso punto di vista e le stesse opinioni.

Credevo che questo lo sapeste tutti. Beh, sicuro... non sto scherzando. Sentite. Stabilità è la parola d'ordine della civiltà. Il mondo deve essere Stabile, giusto? Bene, Stabilità non significa stasi. La Stabilità si raggiunge mediante un equilibrio tra forze opposte che si bilanciano reciprocamente. I giornali devono bilanciare le forze dell'opinione pubblica, quindi devono rappresentare il maggior numero possibile di punti di vista diversi. Noi giornalisti ci riuniamo sempre prima di pescare una notizia, oppure dopo, e ci assicuriamo che non ci siano due di noi che vedono la situazione allo stesso modo. Sapete bene come stanno le cose... qualcuno deve dire che è una cosa terribile e qualcun altro che è meravigliosa, e qualcun altro ancora deve sostenere che non ha nessuna importanza e così via. Io lavoravo per il Times, e la nostra concorrente naturale era la Trib.

La sala stampa del Prog Building è vicinissima agli uffici dirigenziali, a lato del vestibolo. È molto grande, con il soffitto a travi e le pareti rivestite di pannelli di legno sintetico. C'era un tavolo rotondo, al centro, circondato da sedie, ma noi piazzavamo le sedie intorno alle pareti e trascinavamo avanti le poltrone di pelle. Ci mettevamo tutti a sedere con i piedi sul tavolo, e davanti a ogni poltrona, sul tavolo, c'era ormai un bel solco. Una legge non scritta stabiliva che non si parlasse di lavoro prima che ogni solco venisse occupato da un paio di tacchi. È una regola, per noi giornalisti.

Mi stupii nel vedere che c'erano già quasi tutti. Mi piazzai al mio posto e misi i piedi sul tavolo e poi mi guardai intorno. C'erano tutti i sandali, tranne il paio che avrebbe dovuto trovarsi di fronte a me, perciò mi assestai comodamente e chiusi gli occhi. Era là che avrebbe dovuto essere parcheggiato l'uomo della Trib, e di certo non potevo parlare senza che fosse presente il mio avversario per contraddirmi.

Quello della Post disse: «Come va, Carmichaei?»

Io dissi: «Uhm-uhm...»

Quello della Post disse: «Non dormire, bimbo, c'è qualcosa di grosso che bolle in pentola».

Quello del Ledger disse: «Zitto tu, conosci le regole...». E indicò il posto libero.

Io dissi: «Ti riferisci alla legge della giungla».

Quello del Record, che rappresentava l'opposizione del Ledger, disse: «Il vecchio Bobbus se ne è andato. Non tornerà più».

«Come mai?»

«Ha fatto un contratto con la Stereo. Scrive copioni per commedie».

Pensai tra me, Oh, questo significa un altro incontro di lotta libera. Vedete, ogni volta che i cronisti dell'opposizione s'incontrano per la prima volta, dovrebbero impegnarsi in un simbolico incontro di lotta libera. Ho detto «dovrebbero». Finisce sempre in una zuffa in cui si divertono tutti gli altri.

«Bene», dissi, «questo nuovo, Hogan, probabilmente ancora non sa come regolarsi. Immagino che dovrò addestrarlo io. Qualcuno l'ha visto? Sembra robusto?». Tutti scrollarono la testa e dissero che non lo conoscevano. «Bene, allora parliamo senza di lui...»

Quello della Post disse: «Il vostro affezionato corrispondente ha saputo che bolle in pentola qualcosa di grosso. Tutti gli alti papaveri della città sono là dentro». E indicò gli uffici con il pollice.

 

Tutti noi lanciammo un'occhiata alla porta; e io, come facevo sempre, cercai di sfondarla con lo sguardo. Vedete, anche se andavamo tutti i giorni al Prog Building, nessuno di noi sapeva cosa ci fosse dentro. Davvero, proprio così. Andavamo lì, ci mettevamo seduti, ascoltavamo gli alti papaveri e uscivamo. Come spettri al banchetto. Dava fastidio a tutti, ma soprattutto a me.

Me lo sognavo di notte. Sognavo che c'era un Iperuomo nel Prog Building, ma respirava cloro e lo tenevano dentro a una vasca. Oppure che avevano lì le mummie di tutti i grandi del passato e ogni pomeriggio li rianimavano per rivolgere loro domande. Oppure nei miei sogni c'era una mucca intelligentissima e le avevano insegnato a muggire in codice. Qualche volta pensavo che se non fossi riuscito a entrare in quegli uffici del Prog Building sarei impazzito per la frustrazione.

Perciò dissi: «Credete che abbiano intenzione di allagare di nuovo il Mediterraneo?»

Quello del Ledger rise. Disse: «Ho sentito che vogliono invertire i poli. Mettere quello nord a sud e viceversa».

Quello del Record disse: «Non credi che potrebbero farlo?»

Quello del Ledger disse: «Vorrei che lo facessero... se servisse a far migliorare il mio modo di giocare a bridge».

lo dissi: «Piantatela, ragazzi, e sentiamo».

Quello del Journal disse: «Bene, ci sono tutti i soliti... il controllore, il vice e il vice del vice. Ma si dà il caso che fra i presenti ci sia anche... il capo stabilizzatore».

«No!»

Lui annuì e gli altri annuirono. «Verissimo. Il C.S. in persona. È arrivato per tubo pneumatico da Washington».

Io dissi: «Oh, mamma! Scommetto dieci a cinque che questa volta tireranno su l'Atlantide dall'oceano».

Quello del Record scrollò la testa. «Il C.S. non ne aveva l'aria».

Proprio in quel momento la porta dell'ufficio si spalancò e il C.S. entrò tuonando. Non esagero affatto. Il vecchio Groating aveva una faccia da Mosé, con la barba e tutto, e quando aggrottava la fronte, come in quel momento, ti aspettavi che lanciasse folgori dagli occhi. Passò accanto al tavolo lanciandoci appena uno sguardo con quei due pezzi di quarzo blu che aveva al posto degli occhi, e tutti noi abbassammo le gambe con un tonfo. Poi lui uscì dalla sala così in fretta che sentii la sua tunica rossa frusciare per la velocità.

Dopo di lui vennero il controllore, il vicecontrollore e il vice del vice, in fila indiana. Anche loro avevano la fronte aggrottata e si muovevano così rapidamente che dovemmo scattare di furia per placcare il vice del vice. Lo raggiungemmo sulla soglia e lo facemmo girare su se stesso. Era piccolo e grasso, e l'aria agitata non si addiceva alla sua faccia paffuta: lo faceva sembrare un po' sghembo.

Lui disse: «Adesso no, signori».

«Un momento solo, Mr. Klang», dissi io. «Non credo che si comporti molto bene con la stampa».

«Lo so», disse il vice del vice. «E me ne dispiace, ma davvero non ho tempo».

Io dissi: «Allora racconteremo a quindici milioni di lettori che lei non ha tempo...»

Lui mi fissò, però anch'io ero un esperto nel fissare la gente, e sapevo che dovevo costringerlo a dirci qualcosa.

Insistetti: «Abbia cuore. Se si tratta di qualcosa di tanto grosso da turbare la stabilità del capo stabilizzatore, abbiamo il diritto di dare un'occhiata».

Le mie parole lo preoccuparono, come avevo previsto. Quindici milioni di lettori si sarebbero innervositi più di un pochino, quando avessero letto che il C.S. era tanto agitato.

«Senta», dissi, «che cosa sta succedendo? E cosa avete discusso, di sopra?»

Lui disse: «Sta bene. Venite con me nel mio ufficio. Prepareremo una dichiarazione».

Però io non uscii insieme a tutti gli altri. Perché, vedete, mentre assediavo il vice del vice, avevo notato che si erano precipitati fuori tutti così in fretta che avevano dimenticato di chiudere la porta degli uffici. Era la prima volta che non la vedevo chiusa a chiave, e sapevo che adesso l'avrei varcata. Era per questo che avevo insistito per strappare al vice del vice la promessa di una dichiarazione. Sarei salito ai piani di sopra del Prog Building perché tutti i fattori mi erano favorevoli. Primo, la porta era rimasta aperta. Secondo, il cronista della Trib non c'era.

Perché? Beh. non capite? I giornali avversari viaggiavano sempre in coppia. I cronisti del Ledger e del Record camminavano appaiati, e anche quelli del News e del Record e così via. Quindi ero solo, senza nessuno che mi sorvegliasse e si domandasse cosa volevo combinare. Mi aggirai un po' in mezzo alla folla dei giornalisti mentre seguivano il vice del vice, riuscii a piazzarmi per ultimo, e rimasi solo nella sala. Poi l'attraversai come un fulmine e raggiunsi la porta degli uffici. La varcai a razzo e la chiusi alle mie spalle. Quando l'ebbi chiusa, trassi un profondo respiro e bisbigliai: «Iperuomo, sto arrivando!».

 

Ero in un corridoietto dalle pareti sintetiche coperte di affreschi fluorescenti. Era piuttosto corto, e non c'erano porte laterali, e conduceva ai piedi di una scala, bianca. Io potevo soltanto avanzare, perciò avanzai. Con la porta chiusa dietro di me sapevo che sarei stato al di sopra di ogni sospetto... ma soltanto di poco, amici miei, soltanto di poco. Prima o poi qualcuno mi avrebbe domandato chi ero.

La scala era molto bella. Me la ricordo perché era la prima che avessi mai visto, fuori dal Museo delle Abitazioni. I gradini erano bianchi, regolari, e salivano incurvandosi a sezione conica. Passai le dita sulla balaustrata di pietra lucida e salii, aspettandomi di venire assalito da un momento all'altro da un cobra o da uno dei Robot Guerrieri di Tex Richard. Avevo una paura dell'altro mondo.

Arrivai a un pianerottolo quadrato con relativa ringhiera, e fu allora che sentii per la prima volta le vibrazioni. Avevo pensato che fosse il mio cuore a martellarmi contro le costole con quel tipico bam-bam-bam che ti mozza il respiro e ti piazza un grumo di ghiaccio sotto lo stomaco. Poi mi accorsi che la vibrazione veniva dallo stesso Prog Building. Salii al trotto il resto dei gradini e arrivai in cima. C'era una porta scorrevole. Afferrai la maniglia e pensai: «Oh, beh, a! massimo possono imbalsamarmi e mettermi in una vetrina». E aprii la porta.

Ragazzi, era... era il nucleo di cui vi ho parlato. Cercherò di darvene un'idea perché era la cosa più sensazionale che avessi mai visto... e ne ho viste di tutti i colori. La sala occupava l'intera ampiezza del palazzo ed era alta due piani. Avevo la sensazione di essere penetrato nell'interno di un orologio. Lo spazio era letteralmente pieno del luccichio e del movimento di rotelle e camme che brillavano dei riflessi caratteristici di una goccia d'acqua sul punto di cadere. E tutte quelle migliaia di ruote giravano su perni di pietre preziose — proprio come un orologio, soltanto molto più grande — e quei punti rossi e gialli e verdi e azzurri ardevano e scintillavano, e sembrava un quadro di quel francese di tanto tempo fa. Seurat, si chiamava.

Le pareti erano coperte da banchi e banchi di Integrafi Calcolatori... si vedevano le curve dei totali, tracciate sugli schermi fotoelettrici. Le manopole per la regolazione degli Integrafi erano tutte al livello dell'occhio, e si succedevano lungo l'intera circonferenza della sala come una catena di enormi, bianchi punti fermi. Più o meno, questo era tutto ciò che riuscii a riconoscere. Il resto era complicato e sconcertante.

Il bam-bam-bam che vi ho detto veniva dal centro della sala. C'era un ottaedro di cristallo alto circa tre metri, sistemato tra assi verticali, sopra e sotto. Ruotava lentamente, con un movimento che sembrava sussultante, e la vibrazione era il suono dei motori che lo facevano girare. Dall'alto, scendevano raggi luminosi proiettati sull'ottaedro. Le facce che giravano lentamente rifrangevano quei raggi e li irradiavano in tutta la sala. Ragazzi... era veramente sensazionale.

 

Avanzai di qualche passo e poi un vecchietto in giacca bianca attraversò la sala con aria indaffarata, mi vide, mi rivolse un cenno e tirò diritto. Ma dopo tre passi si fermò e tornò verso di me. Lentamente.

Disse: «Non credo di...» Poi s'interruppe, dubbioso. Aveva un'aria distante, come se avesse impiegato tutta la vita cercando di ricordarsi che era vivo.

Io dissi: «Sono Carmichael».

«Oh, sì!» fece lui, illuminandosi un tantino. Poi riassunse l'espressione dubbiosa.

Ebbi un vero colpo di genio. Dissi: «Sono con lo Stabilizzatore Groating».

«Segretario?»

«Già».

«Sa. Mr. Mitchell», disse lui, «non posso fare a meno di pensare che nonostante gli aspetti più sfavorevoli ci siano alcuni fattori molto incoraggianti. Il Sistema dei Dati Assoluti che abbiamo ideato dovrebbe portarci molto presto a ricognizioni del futuro prossimo...». Mi rivolse un'occhiata interrogativa, come un cane che si solleva sulle zampe posteriori per farsi ammirare.

Io dissi: «Davvero?».

«È logico. Dopotutto, quando è stata ideata una tecnica per spingere l'analisi nel futuro assoluto, un'inversione relativamente semplice dovrebbe bastare a portarla a un tempo vicino come il domani».

Io dissi: «Già, dovrebbe essere proprio così...». E mi chiesi di cosa stesse parlando. Adesso che un po' della mia paura si era dileguata, mi sentivo un tantino deluso. Mi aspettavo di trovare l'Iperuomo che distribuiva le Tavole della Legge ai nostri alti papaveri, ed ero entrato in un orologio macroscopico.

Lui sembrava piuttosto soddisfatto. Mi chiese: «Lo pensa davvero?».

«Certo».

«Lo dirà a Mr. Groating? Credo che questo potrebbe incoraggiarlo...» Ebbi un altro lampo di genio. Dissi: «Per essere sincero, signore, lo Stabilizzatore mi ha mandato qui per un breve riepilogo. Sono entrato da poco alle sue dipendenze, e sono stato trattenuto a Washington». Lui disse: «Oh-oh, mi perdoni. Venga da questa parte, Mr.... Ahh...» Così io andai da quella parte e passando tra i meccanismi a orologeria arrivammo a un banco, in un angolo della sala. Dietro c'era una. mezza dozzina di sedie, e il vecchietto mi fece sedere accanto a lui. Il piano del banco era coperto da file di tasti e di pulsanti, e sembrava una stenotype. Lui premette un tasto e la sala si oscurò. Ne premette un altro e il bam-bam accelerò fino a diventare un suono continuo. L'ottaedro di cristallo roteava così in fretta che sembrava una vaga nebbia luminosa sotto i proiettori.

«Immagino sappia», disse il vecchietto, in toni quasi timidi, «che è la prima volta che siamo riusciti a spingere la nostra analisi definitiva fino al futuro assoluto. Non l'avremmo mai fatto se Wiggon non avesse perfezionato i suoi sistemi di dati ad autocontrollo».

Io dissi: «Buon per Wiggon», e mi sentii più confuso che mai. Vi assicuro, ragazzi, era come svegliarsi da uno di quei sogni che non si riesce a ricordare chiaramente. Conoscete quella bizzarra sensazione di avere tutto sulla punta della mente, per così dire, e di non riuscire ad afferrarlo... io avevo mille indizi e mille deduzioni che mi ronzavano nel cervello, e nessuna quadrava. Ma sapevo che si trattava di roba grossa.

Sul cristallo incominciarono a guizzare le ombre. Immagini sfocate e lampi di colore. Il vecchietto mormorava fra sé e le sue dita volavano sulla tastiera come se suonassero una fuga. Finalmente disse: «Ah!». E si appoggiò alla spalliera della sedia per osservare il cristallo. Io feci altrettanto.

Stavo guardando attraverso una finestra aperta nello spazio, e al di là della finestra vedevo un'unica stella luminosa nella tenebra. Era nitida e fredda e così fulgida da ferire gli occhi. Appena oltre la finestra, in primo piano, vidi una nave spaziale. No. non una di quelle a forma di sigaro o di sferoide ovale o roba del genere. Era una nave spaziale che sembrava costruita soprattutto in base a ripensamenti. Era grande, irregolare, con l'aggiunta di ali e torrette e oblò messi a casaccio. Sembrava che fosse stata costruita apposta per starsene li sospesa.

Il vecchietto disse: «Ora osservi attentamente, Mr. Muggins: con questo ritmo le cose avvengono piuttosto in fretta».

In fretta? A precipizio, direi. Vi fu uno sprazzo di attività intorno alla nave spaziale. Le torrette salivano e si abbassavano, le figure in tuta, simili a insetti, si mossero vertiginosamente; un piccolo incrociatore a forma d'ago salì velocissimo verso l'astronave, indugiò per qualche attimo poi sfrecciò via. Un secondo di attesa e poi la stella sparì. Poi sparì anche la nave spaziale. Il cristallo era tutto nero.

Il mio amico, il professore ingenuo, sfiorò un paio di pulsanti e vedemmo la scena in campo lungo. C'erano ammassi di stelle sparsi davanti a me, brillanti e perfettamente a fuoco. Mentre osservavo, la parte superiore del cristallo incominciò ad annerire. In pochi attimi le stelle vennero cancellate. Proprio così. Tac! Mi ricordava i tempi della scuola, quando aggiungevamo inchiostro a una goccia sotto il microscopio per vedere come l'avrebbero presa le amebe.

Il vecchio pigiò i tasti come un pazzo, e vedemmo altre scene dell'universo, e sempre quella nube nera veniva a cancellare tutto. Dopo un po', lui non riuscì a trovare altre stelle. Non c'era altro che la tenebra. A me sembrava che non fosse altro che uno sceneggiato stereo con effetti extraspeciali: però mi agghiacciava lo stesso. Cominciai a ripensare a quelle amebe. Adesso mi facevano pena.

Le luci si riaccesero e io mi ritrovai all'interno dell'orologio. Il vecchietto si girò verso di me e disse: «Dunque, cosa ne pensa?».

Io dissi: «Mi pare che funzioni bene».

Lui sembrò deluso. Disse: «No. no... voglio dire, cosa ne deduce? È d'accordo con gli altri?»

«Con lo Stabilizzatore Groating. intende?»

Lui annui.

lo dissi: «Dovrà lasciarmi un po' di tempo per riflettere. È piuttosto... sorprendente».

«Ma certo», disse il vecchietto, accompagnandomi alla porta. «Ci pensi bene. Tuttavia...». Esitò, con la mano sulla porta. «Tuttavia non sono d'accordo con la sua definizione di "sorprendente". Dopotutto, è ciò che ci aspettavamo. L'Universo deve finire, in un modo o nell'altro».

Pensarci? Ragazzi, il mio cervellone fumava, letteralmente, mentre ridiscendevo la scala. Andai in sala stampa e mi chiesi cosa c'era, nell'immagine di una nube nera, per sconvolgere tanto lo Stabilizzatore. Uscii lentamente dal Prog Building e poi decisi che avrei fatto meglio ad andare nell'ufficio del controllore per un altro bluff, perciò tornai indietro. All'angolo c'era una fermata del tubo pneumatico. Presi una capsula e battei un indirizzo sulla tastiera. Dopo tre minuti e mezzo arrivai a destinazione.

Mentre sollevavo la cupoletta e stavo per uscire dalla mia capsula, mi trovai circondato dal resto della banda dei giornalisti.

Quello del Ledger disse: «Dove sei stato, amico mio? Abbiamo bisogno del tuo cervello sveglio, e subito».

Io dissi: «Sto cercando Hogan. Non posso scrivere niente se prima non lo vedo. Che bisogno c'è del mio cervello?»

Uscii dalla capsula e mostrai la tasca vuota.

Quello del Ledger disse: «Non ti stiamo inzuccherando perché ci faccia un prestito... Abbiamo bisogno di un'interpolazione».

«Aha?»

Quello del Record disse: «Questo scemo vuol dire interpretazione. Abbiamo una delle solite dichiarazioni ufficiali. Tutte parole e niente senso».

«Voglio dire interpolazione», insistette quello del Ledger. «Abbiamo bisogno che qualcuno legga le implicazioni in questo ciarpame».

Io dissi: «Fratelli, voi volete un'esagerazione, e questa volta non ci sto. Troppo rischioso».

 

Perciò salii al trotto la rampa ed entrai nell'ufficio del vice del vice e poi pensai: «Ho una notizia sensazionale, perché perdere tempo con i pesci piccoli?». Feci dietro-front e filai diritto verso gli uffici del controllore. Sapevo che sarebbe stato difficile entrare perché il controllore aveva segretari vivi... mica voder. E si dà il caso che abbia anche quattro receptionists. Belle, ma inflessibili.

La prima non mi vide neppure. Le passai tranquillamente davanti e arrivai nella seconda anticamera prima che lei potesse dire: «Cos'è, la pooli-ziaa?». La seconda fu preavvertita dalla porta che sbatteva e mi agguantò per il braccio mentre cercavo di passare. Passai comunque, con due ragazze aggrappate a me, ma la numero tre aggiunse il suo delizioso peso e io mi bloccai. Ormai ero arrivato a portata di udito del controllore e gridai: «Abbasso la Stabilità!».

Sicuro. Gridai anche: «La Stabilità è un errore! Io sono per il Caos, viva il Caos!». E tante altre cose del genere. Le receptionists inorridirono e una diede l'allarme e un paio di tizi che ronzavano li in giro si fecero avanti con l'intenzione di portarmi via. Io continuai a gridare «Abbasso la Stabilità» e a lottare per avanzare verso il sanctum sanctorum e nel frattempo me la spassavo un mondo perché le tre ragazze aggrappate a me erano di gran classe e io soffocavo beatamente nel profumo di Exuberant No. 5. Finalmente il controllore uscì per vedere cos'era tutto quel chiasso.

Mi mollarono e il controllore chiese: «Cosa significa... Oh, è lei».

Io dissi: «Mi scusi, per favore».

«E questo secondo lei è uno scherzo divertente, Carmichael?»

«No. signore, ma era l'unico sistema rapido per arrivare fino a lei».